maggio 28, 2006

Il lavoro: tematica sulla manualità

E' molto interessante notare quante persone non abbiano la capacità dell'uso delle proprie mani. Molti lavori si basano sull' abilità di manipolazione della materia per trasformarla in oggetto. Che si parli di cibo o di terra questa manualità, la bravura in sintesi di produrre con le mani, di far andare in modo veloce le mani, di essere tecnicamente capaci di far viaggiare le dita ecco questa umana abilità sta iniziando a mancare a troppi. In particolare manca tale capacità a coloro che pensano di fare un lavoro intellettuale. Per dire: l'incapacità da parte di un ingegnere o di un architetto di mettere in piedi una casa oltre che di progettarla (fare le fondamenta, la malta, tutte quelle cose lì). Come se lentamente ci stessimo allontanando dalla fatica materiale per raggiungere solo quella del cervello. In questo l'Oriente invece non si è mai allontanato dalle proprie mani e se anche lo fa, vi sono una serie di operazioni altre a alte (si veda la scrittura, l'arte della spada, l'arte del tè ecc. ecc) dove la tecnica (la capacità manuale in sintesi) ha il fondamentale valore di riprendersi l'uso delle mani. La ripetizione di atti manuali, l'ora et labora di cristiana memoria di questo non vedo sentore. Si dovrebbe aggiornare intere generazioni sul bricolage, sul fai da tè, di appartenenza storica del mondo aglicano perché quello cattolico non l'ha oppure l'ha perso. O anche di intere generazioni di passati proletari che entrano nelle attuali case piccolo borghesi (perchè è questa la mentalità prevalente) per insegnare a riusare le mani per produrre. Perché la tecnica manuale ha bisogno di molto più tempo di quanto si pensi o creda. L'arroganza di pensare di fare un lavoro basso da parte di molti e poi ritrovarsi a piangere perché le mani sono maciullate, la presunzione di ritenere di farcela quando poi nessuno ce la fa veramente perché la materia è rigida, forte e fredda, l'ignoranza della tempistica e perdere ore a fare un lavoro fatto bene (per poi capire che non era per niente fatto bene) di questo troppo vedo. Perché di fatto nessuno è veramente capace di lavorare bene senza avere un solida esperienza alle spalle, e l'esperienza (essere esperti in) la si ottiene solo attraverso: molti soprusi visti e subiti, tanta personale inettitudine, parecchi anni (stiamo parlando di anni, mica di mesi) di gavetta, tanta vita e tantissime persone che t'insegnano, per intenderci tanta merda mangiata e molte indigestioni. Ecco se non si è passato attraverso questo allora non si ha esperienza e si ha solo: presunzione, arroganza, ignoranza, inefficienza, inettitudine. Le mani: la loro intrinsica attitudine nell'inseguire la nostra creativitè, la loro innata abilità al perseguimento di un traguardo artistico, la loro sublime plasticità di elevazione attraverso la musica e l'arte e l'artigianato. E poi la vista: a cui troppo, tanto, tutto si affida ultimamente. E infine la parola: a quella si delega il nostro divenire. Ritengo che la sua importanza stia diventando eccessiva e aggiungo che il mondo della comunicazione mi sta stracciando le ovaie. Potessi mandarei tutte le p.r. a lavorare nei campi. Come da maoistica memoria. Dopo sto a contare con allegrezza i sopravissuti (te).
Ma per fortuna di questo in cucina poco si vede perché in cucina la capacità manuale è obbligatoria, quella pratica altrettanto. Eppure di generali ce ne sono troppi e di bravi soldati neanche mezzo come dire che di chef ce ne sono pochi e di cuochi il mondo è pieno. Strana 'sta cosa.

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maggio 20, 2006

La cucina insanguinata



Si va a scrivere un po' splatter di quello che di norma capita, dove per norma s'intende l'accadimento nella quotidianità, durante l'orario di fatica. Perché sia chiaro sin d'ora che nelle cucine non si lavora: nelle cucine si fatica. Vi diranno che dipende dalle cucine, dagli orari di lavoro, ma lasciate perdere. Di fatto ho sempre trovato poco rispetto dello spazio cucina da parte di molti tra quelli che intraprendono l'impresa di ristorazione. C'è troppa gente che mette in piedi ristoranti senza una vaga idea di cosa sia una cucina. Quella vera. Mica quella della Barbie. Sono poche le belle cucine pensate. Spaziose, grandi, con un'abbattitore e addirittura con la macchina del sottovuoto. (Per coloro che non sanno: l'abbattitore è una macchina straordinaria che abbassa di botto la temperatura dei cibi caldi(issimi) mantenendo le proprietà organolettiche del tessuto cellulare degli ingredienti, mentre la macchina del sottovuoto semplifica molto la vita dei cuochi che hanno la possibilità di pensare e fare la linea alias la preparazione dei piatti, il taglio delle verdure, delle carni ecc. la mezza cottura e via dicendo per poi mettere tutto via nei sacchetti monoporzioni sottovuoto, in modo che il cibo non si degradi, marcisca, vada in putrefazione, faccia i vermi, le muffe e via dicendo). Si fatica nelle cucine, specie in quelle piccole, dove non c'è neanche lo spazio per muoversi e si bestemmia durante il servizio quando si va in merda per un nulla e si odia con la tristezza di vero proletario il proprietario che ha pensato alla meravigliosa sala da pranzo (il fuori da rappresentanza) e alla pessima cucina senza minimamente ricordarsi degli spazi del lavoratore (il dentro da vetero capitalista sfruttatore).
E' un lavoro pesante con orari massacranti, sempre in piedi al caldo, schiattando d'estate (perché poche cucine sono refrigerate dall'aria condizionata! quando mai, bisogna risparmiare) e morendo d'inverno che si esce caldi e sudati con il freddo impietoso che ti fa stramazzare al suolo. E' un luogo pericoloso pieno di oggetti taglienti e ci si taglia e ferisce sempre, comunque, nonostante l'esperienza, e c'è l'affettatrice (sì quell'affare che taglia i salumi in fette bellamente sottili) e bisogna pulirla ogni sera ben bene che s'annidano milioni di batteri e schifezze e io sono paranoica sull'affettatrice che ogni volta che parte a me interiormente s'apre la visione del film horror del taglio del dito, le vedo 'ste scene prima e ho il flashback sul reale e la corsa in ospedale e le urla e fanculi a tutti i cristi e i mondi e il povero disgraziato che piange ho perso un dito, ma no dai che ce l'ho in mano io e te lo riattaccano, e col cazzo che glielo riattacano che non bisogna essere un genio per capire che quasi nessuno tra i chirurghi fa microchirurgia, anzi stanno a fare solo interventi di massima, che l'ospedale pubblico soldi non ne ha. L'incidente sul lavoro (in cucina: fatica) è sempre comunque un classico e hai voglia a dire stai attento! stai attenta! tanto l'olio bollente schizza sempre in faccia, i coltelli tagliano si sa e se per caso non sono affilati allora fai meno attenzione e giustappunto te li infili dritto nel palmo della mano e ti tagli precisa l'arteria e rischi lo schock subito lì; le piastre scottano, i forni sono caldissimi e sei pieno di bruciature se non prendi gli straccetti e stai a lavarti le mani ogni secondo che le mani passano dal pesce alla carne, dalle verdure in prevalenza cipolla e aglio, e devi servire il dolce e...e... a fine serata hai le mani che sembrano le zampe di un palmipede e hai voglia ad usare la crema. Non serve a un cazzo la cremina, le mani sono frantumate dall'olio, dal caldo, dal freddo, non si sa bene da cosa. E l'amico checca ti dice : mettiti lo smalto! non posso lo smalto va nei cibi, ah vero non ci avevo pensato! già com'è che non ti arriva il pensierino logico?!
Ci si taglia di sovente, spesso, sempre. La cassetta del pronto soccorso nelle cucine non ha in genere i cerotti, non ha un cazzo, è sempre sfornita che il proprietario mica si ricorda di cose così stupide come quello di tenerla in ordine. E vaglielo a dire e se anche glielo ripeti tutti i giorni, è straordinario come rimuova il problema e finisci che i cerotti li compri tu e li tiri fuori ogni volta che servono. A fine giornata hai la testa bollita, lo sguardo arrossato, i piedi gonfi, la notte è già andata e ti devi alzare presto che domani hai altra gente da servire, a cui far da mangiare. Sperando che il commis si sia ripreso dallo schock di avere una mano tagliata, e il sangue che ha visto scorrere nei lavandini non gli abbia ottenebrato le cervella. E poi in giro dicono che il mestiere del cuoco è il più creativo del mondo. Sì. Certo. Ti sovviene la nostalgia di un'altra vita (quella andata, quella di prima, quella che non avrai mai) dove eri una segretaria. Che si faceva palpeggiare e maltrattare dal capoufficio. Ah il magico mondo del circo del lavoro...suvvia domani è un altro giorno e altro sangue da lavar via.

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maggio 15, 2006

'A livella candita



Morrisey (cantante degli Smith) dice durante un concerto: the past is a strange place, e così l'altro giorno mentre andavo al lavoro e ascoltandolo cantare non so come e non so perché ma d'un botto in bicicletta passando davanti a una panetteria che esponeva delle sfogliatelle, mi sono ricordata del primo morto che ho visto nella mia vita. Avevo 5 anni e stavo a Napoli e nonna Teresa mi portò al funerale di un suo conoscente e me lo ricordo come se fosse qui e adesso. Mi ricordo delle urla e del pianto e del vecchio signore che giaceva sul letto candido, con la testa sprofondata tra i cuscini di lino bianco ricamato, vestito di nero perfetto, senza scarpe, con i calzini neri, e le corone di fiori e l'odore di violento profumo che emanavano. E poi una signora anziana e gentile che intesseva la storia intera della vita del defunto. E sì ella pure disse citando o forse solo raccontando 'a morte 'o ssaje ched'è?...è una livella. Poesia che ho sempre trovata meravigliosa.
E mentre pedalavo mi sono fermata perché mi sono ricordata così con l'intermittenza del cuore, che ero andata vicino alla signora e l'avevo ascoltata fino in fondo e lei alla fine della storia mi aveva portato in cucina e mi aveva dato da mangiare una sfogliatella. Quella sfogliatella con dentro una ricotta dolce piena di canditi mi aveva fatto pensare 'a livella. Allora gliel'ho chiesto alla vecchia signora cos'era sta livella che non capivo.
E' cumm sta sfogliatella. Tutti debbono mangiare nun 'o vero? altrimenti si muore. Mangiamo e siamo uguali, come quando si muore, uguali ritorniamo. Cumm quann mangiamo, accussì è.
Ma io mangio la sfogliatella e un altro mangia un'altra cosa. Mica è tutto uguale.
Sorrise la vecchia signora: eppure mangi. La sfogliatella ti piace?
Insomma mangio e muoio? Sì mi piace la ricotta dentro. I canditi no.
La signora sempre sorridendo un po' più allegra mi rispose: Prima cresci poi ti fermi, poi lentamente muori. Nel frattempo si mangia. Pensa che quando vivi è come quando ti mangi la ricotta mentre quando ti mangi il candido quella è la morte. La morte è un candido.
Si muore e si diventa un candito?! chiesi stupefatta.
La vecchia signora che scoprii più tardi essere la prefica del paese scoppiò a ridere. Rise sino alle lacrime. E tentava di trattenersi, ma non ci riusciva. Il tutto a me non fece per nulla ridere. Lei mi trovò molto simpatica. Ma lei era adulta e io una bambina. Le due visioni del mondo non sono per nulla concordanti. Si sa.
Che la morte sia un candito e che adesso quasi mi piacciono i canditi e che non so se la morte sia proprio un candito e che forse solo ora intuisca che il passato ritorna e mi appaia sempre strano...So invece di viaggiare di giorno sempre in un posto straniero. E poco ci capisco di questa impermeabilità dell'essere eterni e dell'andare e tornare dalla terra dei morti, del cibarsi dei nostri sogni e memorie da parte del nostro cimitero interiore. Che 'a livella sia candita o candida di questo solo so essere certezza. Per dire.

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maggio 06, 2006

2006. Rimini. Le amarene.


Tirava un vento che non vi sto a dire. Un vento gelido, quello che ti stacca le orecchie e il naso. Il mare neanche minaccioso, di certo non calmo, sbatteva le onde sul battiasciuga con particolare violenza. La spiaggia era deserta e le bandierine erano congelate dritte, neanche sbattevano, se ne stavano proprio dritte sull'attenti da tanto freddo che faceva. Ogni mattina dalla stanza dell'Hotel Mediterraneo appena sveglia osservavo il mare e seppur con tanto vento mi metteva tranquillità. Mi veniva da cantare la canzone di Ruggeri "il mare d'inverno" e difatti era pieno inverno...
Uno che non mette tranquillità è Nicola Fabbri, un uomo con l'argento vivo che gli scorre nel sangue, dall'attività e dall'intelligenza brillante, simpatico e come se non bastasse è pure bolognese. Alto, magro e abbronzato, sempre elegantissimo e chicchissimo, sembra uscito da un film anni '50, per quella sottigliezza d'essere gentiluomo e nel contempo per la grande disponibilità umana di imprenditore da ricchezza sedimentata, che nulla deve dimostrare, ma che deve mandare avanti un bel po' di azienda. Credo che l'amarena Fabbri stia nell'immaginario collettivo di tutti gli italiani della generazione anni '60, chi non si ricorda la boccia di ceramica con i fiorellini blu? Siamo cresciuti con quel carosello, e tuttora molti miei amici hanno una passione smodata per le amarene e continuano ad averla seppur segreta e nascosta. Le amarene hanno la capacità di riportarmi subito indietro nel tempo: quando andavamo a raccoglierle con nonna Teresa e stavamo poi a cuocerle per trattarle e a metterle sotto vetro. Le amarene sono strane e speciali, antiche e arcaiche. Perché non sono grosse e ciccione come i duroni, sono piccole, aspre e amare e bisogna zuccherarle tanto affinché diventino commestibili. Insomma le amarene sono un frutto arcigno.
Tutto il contrario di Nicola che non è per nulla arcigno. Anzi. Mi faccio sempre delle grasse risate quando ci vediamo, sarà l'accento, saranno i modi da vero signore, sarà la simpatia innata, sarà la carica umana, finisce che mi diverte incondizionatamente.
A Rimini ogni anno si fa una fiera importante detta Sigep, è la fiera dei gelatai e dei pasticcieri. L'azienda Fabbri aveva indetto un concorso lo scorso anno e non so come l'ho anche vinto (ma secondo me giusto perché sono raccomandata e sono amica sua...questa è la mia spiega scientifica, e qui c'è la ricetta della vittoria). Sono stati un tre giorni intensi e febbrili e Nicola è stato molto ospitale e gentile e cortese e tutte quelle cose lì che ti mettono a tuo agio e alla fine non so perché ma addirittura mi hanno dato un premio! Adesso quel premio torreggia accanto alle bottiglie preziose di casa. E anche se i premi a me non piacciono e detesto le premiazioni e faccio di tutto per uscirne viva e m'ammorbano profondamente e i concorsi mi fanno abbastanza pena, (ma perché sono una con la puzza sotto il naso, un'ignobile snob...senza nessuna nobilitate appunto) devo dire che incredibilmente a Rimini mi sono divertita un casino e ho incontrato moltissime persone simpatiche e tanti pasticcieri che volevo d'impulso sposare (e sono contraria al matrimonio per innumerevoli motivi). Mica perché erano belli ma perché erano superbi nel presentare piccoli capolavori di manifattura. Ecco quel tipo di artigianato lì lo trovo sublime. Penso a quanta fatica faccia il pasticciere a produrre un capolavoro e in quanto poco tempo tale fatica scompaia smembrata dalla voracità umana. Uno poi dovrebbe parlare della caducità del pensiero, della frammentarietà dell'esistenza, dell'impermanenza cellulare, dell'incosistenza del sistema, della vaghezza delle opere, dell'incostanza degli affetti, del depauperamento della vita, della casualità del destino:
ma che cazzo dovrebbe dire un pasticciere?

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maggio 01, 2006

Le notti di Hong Kong


Mi piaceva tanto quando finito il servizio al ristorante si prendeva la motoretta e Paolo mi portava in giro di qua e di là. E' stato in motoretta che siamo andati a Kowloon all'hotel Peninsula (5 stelline deluxe) a vedere il Felix. Gran bel posto, al 28 piano del Peninsula, che ricorda i grandi alberghi qua in Occidente. Non ha l'allure del Des Bains al lido di Venezia (ma quello ce l'ha giusto perché Visconti c'ha girato un film leggendario) ma uno si aspetta di vedere Tadzio con il suo viso angelico seduto a prendersi il tè in mezzo a una banda di turisti babbioni. Il Felix è stato progettato da Starck e si vede e avremmo detto la solita starckata se non fosse per i bagni che sono veramente napoleonici con grandi lastre di marmo di Carrrara ovunque e una meravigliosa rubinetteria stile Alien. Un un po' troppo anni '80 opulento ed eccessivo è l'entrata del Park Haytt, faraonico e antico tutto il contrario per esempio di quello milanese molto a la page per essere minimalista.
Mi piaceva andare in giro la notte perché Hong Kong è luminosa e appartiene a quella serie di città che vive di notte illuminando migliaia di chilometri solo con la sua luminescenza, (alla faccia dell'inquinamento luminoso!). Dall'alto di Kowloon si vedeva la baia di Hong Kong stagliarsi nelle acque nere del mare mentre i traghetti andavano perché comunque rimane di fatto un'isola e pertanto ha bisogno di milioni di merci. Mi piaceva la quantità impressionante di locali specie a Lan Kwai Fong.
Si andava di qua e di là, e Paolo mi raccontava della storia di Hong Kong che di certo in questi ultimi anni ha avuto molte peripezie. Si è svuotata con la Sars, sta ora riempiendosi e il mercato immobiliare di nuovo è completamente impazzito, e mi faceva strano il fatto che il mattone perdesse valore: più un edificio è vecchio e meno vale percui appena si può si butta giù e si ricostruisce più alto, tutto il contrario di qui insomma.
Wan Chai il quartiere delle puttane è completamente cambiato rispetto agli anni '70 quando i giovani marines impegnati nella guerra del Vietnam riempivano le strade e si sfogavano dimenticando per un paio d'ore orrori e brutalità. Adesso ci sono turisti in cerca di gioie e dolori, un pieno di filippine giovanissime (troppo? da occidentale non si capisce mai che età abbiano) che tentano di attrarli dentro a club più o meno belli squallidi.
Sul tardi ci si ritrovava a bere una birra con tutti gli altri chef raccontando dei strani personaggi che girano per l'isola-città. Magari sono ricchissimi e possiedono talmente tanti soldi che pare ovvio abbiano una serie di tic non indifferenti. Ed è altrettanto ovvio che molti tic riguardino il cibo. Possiedono anche gli hotel dove i miei amici lavorano. Ci aveva fatto morire dalle risate il racconto del nostro carissimo amico chef che ci raccontava stile leggenda metropolitana di un tale padrone cinese che aveva mezza Hong Kong e che arrivava sempre con il suo cuoco personale. Un filippino vestito in giacca e cravatta con una borsetta LV contenente una padella di ghisa su cui doveva cuocere una bistecchina. Con i suoi guanti bianchi metteva sul fuoco la padella e aspettava che fosse incandescente e poi cuoceva la paillard girandola perfetta in modo che le strisce annerite formassero una griglia a quadretti. Che al padrone piaceva così altrimenti non la mangiava. Tutta l'operazione richiedeva 10 minuti di lavoro e il filippino nel frattempo riusciva a riempire di fumo l'intera cucina che mai si ricordasse di accendere la cappa, e insegnava agli altri chef come dovessero essere perfetti i quadrattini. Non era un cuoco ma un geometra. Il filippino con la borsetta Vitton con dentro la padella in ghisa mi mancava giuro. Soprattutto mi mancava il signore che non si mangia la bistecca senza la sua griglia perfetta. Ecco girare il mondo serve a qualcosa: a dare ragione alla nonna che diceva sempre che il mondo è bbello perchè sta vario. Aggiungo io il mondo è bbello perché sta pure un po' avariato.

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