giugno 15, 2006

La costruzione del piatto


La costruzione del piatto significa pensare a come vanno messi gli alimenti su un supporto (percui: piatto, ceramica, legno, foglia, pietra, qualsiasi elemento che possa reggere il peso degli alimenti e abbia una dimensione tridimensionale). Alcuni chef chiamano la costruzione del piatto creazione. Ecco la creazione mi fa abbastanza schifo come termine (inciso: stesso discorso vale per francamente, io ho orrore dell'avverbio francamente, appena lo sento so che non ho di fronte una persona ma un giocatore. Non so a che giuoco stia giocando ma non è il mio e non siamo nello stesso campo). Qui non si crea niente, qui c'è sangue e fatica e sudore. Non si schioccano le dita e magicamente appare il piatto. Qui il piatto lo si pensa, lo si costruisce e in genere lo si fa in squadra (brigata). Si cucina e si mettono assieme gli alimenti. Che so: gli involtini di manzo con gli involtini di zucchine e la dadolata di zucchine. Sono tre passaggi di lavorazione e di cottura. I tre passaggi devono raggiungere il fine: il gusto buono. Pertanto si pensa alla forma degli involtini di carne (piccola o grande o media) indi alla forma delgli involtini di zucchine e alla dadolata (vale a dire la forma acquisita a fine taglio) delle zucchine. S'inizia dalla forma rotonda del supporto piatto di ceramica colorata o bianca...da vedere qui ci sono varie correnti di pensiero. I piatti neri erano di gran moda negli anni '80, il nero è un colore da me molto amato ma tanto difficile signori miei! tant'è che bisognarebbe usarlo per i dessert che son così colorati.
Quindi partire dal supporto, passare al colore, alla forma e all'alimento specifico da appoggiare sopra.
O anche inversamente: alimento, forma, supporto e colore (benchè l'alimento abbia già un colore specifico, bisogna sempre aggiungere il colore finale della cottura).
Va da sè che tutti questi passaggi sono racchiusi nel servizio e nella tavola. Molte disposizioni sul piatto devono essere pensate in funzione dell'ambiente in cui vengono servite e mangiate. Ma del teatro, dello spazio fuori e dei suoi attori si parlerà in altri post.
Il supporto: cerchio, quadrato, triangolo e rettangolo. Bisognerebbe seguire le regole date da Wassilj (Kandinsky il grande). Perciò forme quadrate su supporto rotondo e viceversa. Se volete porre colore su colore fate molta attenzione, per esempio: piatto rosso con charlotte di lamponi, cilindro su piatto rettangolare e poi per esempio: lunga striscia di crema pasticcera gialla (giallo canarino dato da un pizzico di zafferano) che taglia di netto il piatto, cosicché la striscia di colore diverso spezza il monocromatismo del rosso su rosso. E si potrebbe andare avanti dal particolare all’infinito.
La costruzione del piatto è come cantava Fossati “la costruzione di un amore, spezza le vene delle mani mescola il sangue col sudore se te ne rimane..." Benchè a me piacerebbe chiedere a Mia Martini cosa ne pensasse di tanti drammatici versi, credo dall’Ade non mi parlerebbe del dolore provato nella costruzione di un amore e mi spiegherebbe della crudeltà umana che parimenti si versa nella costruzione di un piatto, so che sicuro Fossati mi direbbe di farmi sempre e democraticamente i cazzi miei. Per dire.

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giugno 04, 2006

Sumochef: ultima puntata


L'amore folle dei giapponesi per l'addio non mi ha mai risparmiato. Siamo arrivati alla fine della collaborazione o consulenza o quella cosa lì che all'estero viene subito e ben pagata mentre in Italia bisogna armarsi di lanciafiamme e avvocati per ottenere un qualsiasi importo. Ho portato a bere i ragazzi della brigata in un bel posto fuori sulla terrazza che dà sul fiume e le lanterne lanciano strani segnali, mentre una luna galleggiante si specchia poderosa su acque veloci. Sul tardi ci hanno raggiunto il GM e sumochef, ovvio si detestano ma imperterriti continuano a far finta di amarsi e tra svariati giri di sorrisi di circostanza e di chiacchere amabili sulla variabilità del tempo lentamente scivolano sulla reciproca antipatia. Vai di brindisi, di saluti, di risate ubriache (che i giappo si ubriacano subitosubito e non reggono l'alcol e gli occhi diventano rossi e si mangiano le parole) e d' irrefranabili sghignazzate per un nonnulla. Mi chiedono l'impossibile sulla mia razza, sulla vita, sull'Italia, sulla mia differenza e finiscono sempre nel loro classico luogo comune: la loro diversità dell' essere giapponese. Vagli a spiegare che io non li ho mai trovati così pazzescamente unici e diversi. Anzi. Più viaggio e più mi sembra che l'umano essere ovunque si assomigli nella privatezza. Più ci si allontana e più ci si avvicina all'essenza della nostra straordinaria peculiarità. Alla fine siamo tutti diversi eppure siamo fatti della stessa drammatica pasta: sangue, viscere, dna. Mi metto cortese a spiegare tale concetto che in questi anni mi si è venuto formando nelle cervella e sumochef mi guarda corrugando il frontone. Afferma contrito che sì forse ho ragione, che la morte ci unisce tutti. Dico anche la malattia, la sofferenza, il dolore, la gioia, il sesso, insomma gli aspetti semplici senza entrare nel merito del semplicismo. Lui dice: sì ma la merda ha odori diversi. D'un botto si va ad aprire un lungo dibattito scatologico dove indistintamente partecipano tutti, anche i tavoli vicini talmente il tasso alcolico è elevato, si chiacchera di cibo e di come le intestina suppliscono alla nostra sovralimentazione, e di certo le merde hanno svariati colori e che comunque dipende dove sei, da cosa e quanto mangi. Si finisce col cantare e in ultimo mentre mi abbracciano e baciano con enorme trasporto, i ragazzi quasi si mettono a piangere. E pur' io ho la lacrimetta facilefacile e sto per andarmene da Kyoto e non so quando ritornerò e già sono preda di nostalgie infinite, di piatti meravigliosi che ho visto costruire, delle ceramiche che so non ritroverò al mio rientro e mi addolora anche non vedere più l'enorme stazza di sumochef. Mi siedo accanto a lui che ha uno sguardo triste e non ci diciamo niente e chiedo se ha voglia di bersi l'ultimo giro di sake. Annuisce distratto. Mi domanda quando ritornerò e gli dico che proprio non so. Sorridendo alza la minuscola coppa: kampai, shigata ga nai ne (alla salute non ci si può far nulla). Ci si lascia così e mi allontano mentre sumochef rimane sulla terrazza a bere con tutti gli altri. Me ne torno nella mia stanza a fare i bagagli. Mi aspetterà un lungo viaggio di rientro. So di certo che non è stato un lungo addio. Molto tristetriste con tante lacrime sprecate. Tipico dei giapponesi. Adorano il melodramma dagli addii strazianti e pensare che io non lo sopporto. Si piange troppo mentre la vita evapora immersa in salati lacrimoni.

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