marzo 25, 2014

2014. TRIESTE.

Vi diranno che Trieste è la città di Joyce, di Svevo e di Saba. Vi racconteranno delle sinagoghe, delle chiese ortodosse e di quelle cattoliche. Vi diranno del bianco castello di Miramare e del suo parco sugli scogli. Vi racconteranno di quanto sia maestosa e altera l’apertura al mare della Piazza dell’Unità d’Italia. Vi diranno del Canale Grande e della Chiesa di S.Antonio e dei caffè letterari e delle tante gallerie d’arte.
Vi parleranno di Mitteleuropa e dell’Impero Austrungarico, come se non ne fossero mai ancora usciti, come se tuttora vivessero di sfarzo e potenza. Ah sì e vi riparleranno di Joyce e di Svevo e di Saba.
Ma non vi diranno che è la città della scienza con il suo Centro di Fisica Teorica, a Miramare. Preferiranno citarvi la principessa Sissi, valli a capire i triestini. Per non dire del laboratorio dell’Immaginario Scientifico e dell’Osservatorio Astronomico, come pure dell’Elettra Sincrotrone.

Oppure vi diranno che sono tutti matti, i triestini, che la follia a Trieste s'affaccia più frequente che in altri posti. Vi diranno che di certo è colpa della bora. Non vi racconteranno di quanto Trieste sia stata la città pioniera, attraverso Franco Basaglia, della ricerca OMS sui servizi della salute mentale.
Come non vi diranno che a Trieste c’è il Festival Cinematografico di fantascienza più importante d’Italia, per non parlare del prestigioso evento di moda e di ricerca ITS.
Vi racconteranno di famiglie decadute e ricchezze dilapidate, perché, e vai a capirlo il perché, ai triestini piace più il dramma della commedia. E vi diranno, di nuovo, che di certo è colpa della bora.
Ma per chi ci arriva la prima volta Trieste appare bella, anzi no, bellissima.
Forse è la costiera, forse è il mare pulito, forse è proprio l’aria tersa e nitida, forse è solo la luce. O forse è proprio la bora a renderla tanto diversa. 
E anche se si ha l’impressione che risulti lievemente sfasata rispetto la contemporaneità, è ben cosciente di essere “città di passaggio”, eppure nella sua essenza è rimasta “città di frontiera”.
Ah e io invece aggiungo che vivo qui adesso e mi piace e guardo dalla finestra i binari e la stazione e le gru e poi il mare. E tutto sembra più duro e semplice a Trieste con la bora, che dal molo Audace può far volare via come bisogna avere audacia per uscire con la bora violenta e avanzare affaticati, quasi senza respiro, per andare solo a lavorare. Quando si potrebbe stare a casa ad ascoltarla la bora.
Ma rimane che Trieste è una città bella, anzi no, bellissima. Non per dire. Sul serio.

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ottobre 14, 2012

Maggio il mese più caldo


Son passati degli anni e dei mesi da quando son qui in India e mi hanno trasferito e vivo in un'altra città, Bangalore, dove c'è un'eterna primavera. Ammetto di non avere nessuna nostalgia per Chennai,  dove maggio è il mese più caldo, con delle temperature torride, che arrivano a 48 gradi, umidità a mille, in una sauna continua. A metà mese c'è il picco di caldo e corrisponde grosso modo al nostro luglio in città.
Maggio, il mese più caldo, è il mese più odiato e non vedi l'ora che finisca e che se ne vada, perché il troppo caldo non fa ragionare, ottundendo mente e sensi.
Ma quest'anno un venerdì di maggio, il mese più caldo, appena dopo la mezzanotte, Gopal, il mio genero, telefona e dice trafelato che la figlia sta partorendo e allora nel mezzo della notte si parte per Auroville e tre ore dopo Gemma è già nata, e mi dicono che figlia e nipote stanno entrambe bene e e mi raccontano di quanto sia stato veloce  il parto. La nipote è grossa e pesa quattro chili e cento, e c'ha il doppio mento e Joshua c'ha una sorella. E maggio da mese più caldo e insopportabile si trasforma subito in mese più sopportabile e felice.

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settembre 19, 2012

L'imperizia


Non si tratta di non voler più scrivere o di non saper più cosa scrivere o peggio di non aver molto da scrivere. L'internet è quella cosa per cui gli scritti di anni prima valgono ancora oggi e non ha molto senso. Si dovrebbe aggiungere pure la difficoltà di non scrivere in modo troppo autobiografico, 'ché, dicevano, gli scritti rimangono e si ribaltano contro e arriva la realtà a rinfacciarteli. Si tratta di capire che bisogna sempre essere molto attenti alla pubblicazione di quello che si scrive. Si tratta di autocensura. Perché l'internet ha cambiato la forma della memoria. Non si tratta più di ripercorrere le sale di una deserta biblioteca, alla ricerca di scritti persi nei millenni. Basta una frase sul motore di ricerca e t'arriva la mazzata di cazzate scritte anni prima. E non parliamo delle foto. Miliardi di foto, e lo sappiamo che non si possono più tenere gli album di fotografie di carta, ma solo account su flickr e picasa e instagram. Non si perde più niente e si ritrova tutto. Non  fa paura? E anche se si dice, mentendo spudoratamente, a se stessi "non ho niente da nascondere" e si pensa di essere trasparenti,  (e cosa vuol dire lo sa solo la parola trasparenza) rimane l'ipocrisia di fondo. Ciascuno ha degli spazi privati che desidera non siano resi pubblici. E quando un giorno si trova di fronte a una cosa pubblicata 15 anni prima e di cui si è completamente dimenticato e in cui non ci si riconosce più, nel modo più assoluto, cosa fa? Dice: "ah erano 15 anni fa, ho scritto una cazzata, non la penso più così, adesso sono una persona diversa, mioddio come scrivevo male"? Già ma intanto è lì, intanto 15 anni fa non ci si è presi la briga di stare attenti. Dimenticandosi di un sentimento particolare: il pudore.
Insomma non è così facile gestire la propria labile memoria, figuriamoci la tenacissima e indelebile memoria dell'internet. 

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aprile 28, 2012

Note sparse sull'accettazione dei sapori

Molto spesso, troppo in verità, ascolto e leggo triti argomenti e vetere nostalgie per le cucine della mamma, della nonna, della zia. L'apice dell'argomentazioni lo si raggiunge su quanto la cucina contemporanea sia lontana dal palato e dal gusto degli esseri normali. 
Bisogna studiare la cucina contemporanea e bisogna mangiarla per capirla, quindi andare nei ristoranti dove si fa quel tipo di cucina. Bisogna investire del denaro per conoscerla e apprezzarla. Stesso discorso vale per l'arte contemporanea. Bisogna studiarla e bisogna andare a svariate mostre prima di comprenderla. Stesso discorso per la moda e per la musica.
Mettiamola giù così: il palato è un muscolo e bisogna allenarlo. Uguale per il naso, per gli occhi e per l'udito.  In altri termini i nostri sensi devono essere allenati quotidianamente per razionalizzare la realtà e accettarla. La cucina è il prodotto geografico e culturale e scientifico di un territorio, di un popolo e di una cultura. Pensare che si possa capire una cucina diversa dalla propria la prima volta che la si assaggia, è di fatto impossibile. Il palato non è abituato a capire e conoscere le novità.  Il naso, gli occhi e la lingua non sono capaci da subito di catalogare nuove informazioni, bisogna che ci sia un periodo di apprendimento e di allenamento. Questo libro spiega bene, nei limiti dell'attuale conoscenza scientifica, cosa ci capita quando mangiamo. Ho scoperto che le papille gustative si rinnovano ogni 15 giorni. E molto spesso capita che quello che avevamo provato l'anno prima e c'era piaciuto, l'anno dopo non ci piace più. Motivo? Non si sa. 
Quando si comincia a viaggiare si scoprono varietà quasi infinite di coltivazione di uno stesso ortaggio. E la mancanza di conoscenza delle variabili geografiche che diventano variabili culturali non ci aiuta di fatto a capire le altre cucine. Si dà per scontato che nessuno arriva in un posto lontanissimo da casa pensando di mangiare i cibi a cui è abituato. Questo pensiero è di un'enorme presunzione. In genere, e vale per tutti gli umani, c'è un'enorme difficoltà ad accettare il gusto degli altri. Se uno è abituato a mangiare salato e piccantissimo dopo una settimana ha una necessità disperata di immettere nel proprio corpo una serie di sostanze di cui "crede" aver bisogno e di fatto ne ha bisogno. Vale per il caso inverso. Se si ha un palato orientato a dei gusti blandi e freschi dopo una settimana di cucina forte e speziata il corpo comincia a soffrire. E non è solo una sofferenza per la mancanza di sapori conosciuti, è un rifiuto "psicologico", è proprio il cervello che reagisce alla mancanza di una serie di vitamine, proteine e carboidrati ricorrenti. Perché? Anche quello non si è ben capito e si stanno facendo delle ricerche in merito. Il nostro cervello in altre parole è orientato fin da bambino a una serie di sapori, si integra nella geografia e nella cultura in cui vive quotidianamente. E anche se ci definiamo la specie onnivora per eccellenza, in realtà non lo siamo, esistono dei tabù culturali e religiosi che ci contraddistinguono. E nessun essere umano mangia tutto tutto. 
L'estraniamento che l'essere umano prova quando va in un altro posto parte dal cibo, dal fatto che si assaggiano sapori sconosciuti e magari molto lontani dai propri. E se rimane a lungo lontano dalla propria madre patria, inizia il dramma, in una sorta di rivalsa e di ricerca delle radici per il rimpianto per sapori persi e  comincia a parlare della cucina della mamma, della zia e della nonna, flagellandosi di ricordi e nostalgia. La non-accettazione dell'estraniamento e la non-integrazione in una geografia diversa conducono alla ricreazione del primo fattore perso: il cibo, in virtù del fatto che il proprio è sempre meglio di quello degli altri. La ricostruzione della propria cucina in un ambiente ostile, lontano da casa senza le materie prime, portano a rifare una cucina avversa al territorio. Insomma l'eterna tendenza a ricreare il proprio ambiente benché lontani da casa. Accade sempre  che invece in patria, quella stessa cucina subisce una totale evoluzione. 
C'è poi un altro fattore da tenere a mente: la memoria è labile, esiste una memoria che ricostruisce ricordi falsi e rimpiazza quelli persi. 
E poi c'è l'alta cucina o fine-dining, come si definisce all'estero. La difficoltà degli chef che fanno alta cucina è far apprezzare quello che stanno proponendo. Molti di loro infatti vanno al tavolo e spiegano il piatto. La prima reazione da parte del cliente normale è sentirsi imbarazzato, la seconda è quella di essere ritornato a scuola e provare disagio, la terza è sgomento per il solo fatto che bisogna reimpostare una categoria di pensiero che è quello dell'abitudine. Cosa c'è di più normale e di più famigliare nel mangiare il proprio cibo? Un essere normale, non abituato ad andare a mangiare l'alta cucina, non solo non la capisce ma ne esce straniato e disturbato. "La trattoria della Gina mi dà un piatto di pasta fatto come dio comanda, non 'sta roba che non si capisce niente e ti lascia anche la fame" è in genere il commento del 90% delle persone che s'avvicinano per la prima volta all'alta cucina. 
Bisogna aprire poi un altro discorso di quanto la dimensione estetica sia diventata importante nella presentazione del cibo. Vale per tutte le cucine che non appartengono più a quella che io definisco "la cucina del sostentamento". Quindi l'impatto visivo della presentazione del piatto ha molto a che vedere con la conoscenza delle ultime correnti proposte dagli chef di fama. Che non lo sono perché pagano qualcuno, lo sono perché scoprono, inventano e creano nuovi modi di costruire matericamente il cibo sulla superficie del piatto. Assemblare gli alimenti, tagliarli, cuocerli, insaporirli e bilanciarli appartiene alla scienza e all'artigianato, metterli sul piatto alla conoscenza di tecniche artistiche (colori e forme). 
Si continua a dire che la cucina è arte. Diciamo che la cucina sparisce mentre l'arte rimane. Per dire.

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luglio 08, 2011

Sui rami alti del pruno

Si era ai primi di marzo del '44 e l'aria stava cambiando. Sui cigli dei fossi le primule gialle fiorivano e in lontananza, all'orizzonte, la grande quercia stava di guardia al tesoro nascosto tra le sue radici.

Il pruno in quei giorni era carico di gemme che presto sarebbero sbocciate. Centenario si stagliava a sinistra dall'ampia aia, di fronte il casolare, e d'estate si caricava di prugne succose. Le migliori, quelle toccate dall'angolazione perfetta dei raggi del sole, si trovavano sui rami più alti e da quelle mamma Grazia era solita fare l'unica marmellata che la famiglia consumava nei freddi mesi d'inverno. Era una marmellata dal sapore lieve e particolare, che tutti divoravano gustandola, ben sapendo non solo che era unica ma che era la migliore, non troppo dolce e non troppo amara. Era la loro marmellata preferita. Era la marmellata di mamma Grazia.
L'incaricato a salire e raccogliere le prugne nei rami più alti del pruno era il piccolo Gustavo dalla orecchie a sventolina. S'arrampicava leggero e veloce, tanto che pareva una scimmietta, e staccava i frutti altrettanto velocemente, riempiendo il paniere in quattro e quattrotto.

Quel mattino d'inizio marzo il piccolo Gustavo si svegliò per il freddo. Sua sorella Augusta non c'era nel lettone e neanche suo fratello Steno. Scosso dai tremori stava quasi per mettersi a pisciare sul letto ghiacciato. Si alzò, s'infilò gli zoccoli e scese le scale, uscì nell'aia e rimase abbagliato dalla luce mattutina. Coprendosi gli occhi con la mano corse al gabinetto che stava al di là dell'aia. Mentre pisciava si ricordò del sogno. Erano tutti attorno alla quercia, con Bepi il mona che sussurrava tiremole fora, femole shcioppar tutte e cantemo eepooooneevin. Mentre dissotterravano le munizioni ai piedi della quercia, sua madre s'era avvicinata da dietro e gli aveva accarezzato la testa e gli aveva dato un buffetto vara che no s'è robe da far.

Scrollando il pisello l'immagine di mamma Grazia che gli accarezzava la testa lo fece quasi ridere. Xera un sonio, si disse. Si portava dentro l'assoluta certezza che mamma Grazia mai nell'intera vita gli avesse accarezzato la testa. Forse l'aveva fatto, forse quella sensazione sconosciuta risaliva a tempi dei quali non aveva memoria. Era cosciente solo del fatto che mamma Grazia non l'aveva mai accarezzato.

Gò fatto un sonio beo pensò uscendo dal gabinetto e si riavviò verso il casolare. Gli s'affacciò di nuovo alla memoria l'immagine delle munizioni e gli sovvenne che non erano più andati laggiù, vicino ai resti dello Stuka. Erano arrivati tedeschi, che i tedeschi arrivavano sempre. Avevano trasportato altrove l'aereo e ai cadaveri avevano dato degna sepoltura con una cerimonia grandiosa per onorare l'eroismo della grande Luftwaffe. Nessuno del paese, a parte tedeschi e fascisti, aveva partecipato a quel funerale.

Il piccolo Gustavo e tutta la banda non ne avevano più parlato. Era un tacito accordo, era il loro segreto. I giorni erano passati fino a quel mattino e il piccolo Gustavo dalle orecchie a sventolina decise che era giunto il momento, perché se arrivano i sogni qualcosa vuol pur dire. Il piccolo Gustavo s'incontrò al solito posto con tutti gli altri bambini sfacendati dopo il magro pranzo, mentre i grandi andavano a riposarsi un paio d'ore.

"Gavemo da tirar fora le palotole dei tedeschi"

"E cossa femo coe palotole?" chiese Bepi il mona, ma l'idea di disseppellire le pallottole aveva già preso la fantasia dei bambini che prontamente s'erano messi a correre verso la quercia e alacramente avevano iniziato a scavare con le mani la terra finchè non trovarono la scatola e riuscirono a tirare fuori le rastrelliere.

"Le femo shcioppàr". Annunciò il piccolo Gustavo entusiasta. Guardò il Bepi quasi a dirgli che stava seguendo le sue indicazioni, che va bene che era un sogno, ma mica era un'idea sua quella. E Bepi il mona obiettò "Ma le xè massa". Il piccolo Gustavo stava per averne a male ma poi comprese che el xera stato un sonio beo. Gli altri stavano trasportando le munizioni verso il luogo dove era caduto lo Stuka. Le misero una sopra l'alta impilandole in una stabile catasta e ne lasciarono fuori alcune da cui estrassero la polvere da sparo e fecero un lunga striscia. Bepi aveva i fiammiferi e accese la miccia.

I contadini dei dintorni ebbero un sopprassalto per lo scoppio violentissimo e uscirono dai casolari spaventati, che pareva fosse scoppiata una bomba. Da lontano una lunga colonna di fumo denunciava l'accaduto. E si misero in attesa, dolorosamente consapevoli che qualcosa di grave era accaduto, aspettando preoccupati che arrivassero i tedeschi, che arrivavano sempre. I bambini intanto erano stati sbalzati dall'urto dello spostamento d'aria. S'erano feriti ed escoriati ed erano completamente coperti di nero di fuliggine. Rintronati dal botto s'erano dati a un fuggifuggi generale. Sapevano di averla combinata grossa e capivano che a casa li avrebbero presi a cinghiate.
Mentre correvano zoppicando sentirono il rombo delle camionette tedesche. Il piccolo Gustavo mentre si dirigeva verso casa, avendoli intravisti sulla strada da lontano, si trovò la via sbarrata dal pruno su cui s'arrampicò veloce. Lui lo sapeva che le persone non guardavano mai in alto. E lassù si calmò sentendosi al sicuro tra i rami alti carichi di gemme.
Le due camionette entrarono nell'aia e scesero i tedeschi e quasi l'intera famiglia stava uscendo di casa con aria apprensiva. Spianarono le armi facendo alzare le mani e le braccia, mettendola contro il muro di casa. Papà Angelo proprio in quel momento uscì dalla stalla e s'avvicinò al comandante che stava ordinando qualcosa ai suoi soldati. Camminava a testa alta, non mostrando segni di paura, con la fronte corrugata e si fermò di fronte al tedesco. Che corrugò a sua volte la fronte e iniziarono a parlare ma il piccolo Gustavo non riusciva a sentire niente, 'ché era troppo lontano e in alto. La conversazione ebbe fine quando papà Angelo scosse la testa deciso.
Abbracciato al ramo del pruno, guardò impotente il comandante puntare la pistola alla tempia di papà Gustavo che se ne stava immobile con gli occhi azzurriazzurri fissi in quelli del comandante. E proprio allora uscì mamma Grazia. Che si avviò decisa incontro ai militari e li guardò a uno a uno e poi disse qualcosa indicando i figli e i parenti radunati in fila. Disse qualcosa e di nuovo il piccolo Gustavo non riuscì a sentire. Fissava ipnotizzato la scena, aspettando senza respirare che i militari iniziassero a sparare alla sua famiglia radunata contro il muro del casolare.
Il comandante abbassò la pistola e tutti i militari parvero rilassarsi. Poi diede un ordine e quattro di loro entrarono in casa. Era tutto avvolto in un silenzio pesante. Aspettò che militari uscissero di casa e finalmente dopo un tempo che giudicò lunghissimo i soldati vennero fuori, trasportando uova, farina, burro, latte, polenta, zucchero, sale e sacchi di polenta. Si avviarono verso il pollaio e presero le galline e i conigli. Entrarono nella stalla e trascinarono fuori il maiale, che strillava e scalciava. Allora uno di loro estrasse la pistola e gli sparò alla testa, gli strilli cessarono di colpo mentre il suono dello sparo rimbombò nell'aia. Sussultarono e capirono che sarebbero morti. Nessuno parlò o pianse o pregò. Rimasero fermi contro il muro. Zia Giovanna cominciò a pregare sileziosamente, zio Giovanni respirò piano. I tedeschi caricarono sulla camionetta le vettovaglie razziate. Il comandante intanto aveva rinfoderato la pistola e seguiva il caricamento. Il maiale pesava e ci vollero ben quattro di loro per tirarlo sù. Poi il comandante si avvicinò di nuovo a papà Angelo e gli sibilò qualcosa. Nessuna risposta, nessun accenno, nessun abbassamento di occhi. Mamma Grazia era ferma in mezzo all'aia, fece pochi passi e fu vicina a papà Angelo. Il comandante disse qualcosa anche a lei. Mamma Grazia alzò il mento e di nuovo indicò tutta la propria famiglia appoggiata al muro. Il piccolo Gustavo conosceva quell'alzata di mento. Mamma Grazia era rabbiatissima.
Il comandante gridò un ordine ai soldati e si avviarono sulla camionetta, lui pure si girò e montò davanti, il guidatore mise in moto e partirono sgommando.
Papà Angelo si volse verso mamma Grazia scuotendo la testa, le disse qualcosa e le accarezzò la guancia. Lei si volse verso la famiglia che si stava staccando a pezzi e stava correndo verso di loro, rimasti fermi in mezzo all'aia, li avvolsero in un abbraccio, senza riuscire a sorridere o a piangere. S'avviarono verso casa e mentre entravano mamma Grazia si volse e guardò verso i campi, e alzò lo sguardo verso il pruno e il piccolo Gustavo seppe che era stato visto. Lo seppe perché la mamma Grazia aveva piegato la testa e lo faceva sempre quando lui ne faceva una delle sue.


"E poi?" chiese la figlia. "E poi quella volta non le ho ciapade" rispose papà Gustavo
"Ma ti aveva scoperto" "Sì. Ma xero massa in alto sul pruno" disse papà Gustavo con il tipico sogghigno del ragazzino astuto che è riuscito a farla franca.
Non gli venne da raccontare che la mamma Grazia prima di richiudere la porta dietro di sè, gli aveva sorriso. E lui quel sorriso lì non l'aveva mai visto. Un sorriso così unico e speciale che era uguale al sapore della marmellata di prugne, quelle migliori, che stavano nei rami più alti del pruno.

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dicembre 18, 2010

Pordenone. 1943. Dicembre. Lebkuchen.

Giunsero prima i rombi e la banda di bambini alzò lo sguardo e avvistò gli Stuka e la luce grigia del cielo basso s'incupì, come d'estate all'arrivo della tempesta. L'odore del giorno cambiò e d’improvviso ci fu un scoppio di fuoco e scapparono a rifugiarsi nel fosso, con il cuore che batteva forte, mentre il rumore terrificante di uno Stuka che cadeva perpendicolare interrompeva la quiete in mezzo alla campagna di un freddo pomeriggio del 24 dicembre 1943.
Lo Stuka precipitò dritto e loro nascosti e ansimanti nella basso del fosso si protessero la testa con le braccia magre e tremanti, 'ché nessuno di loro aveva mai visto cadere un aereo prima. Si coprirono terrorizzati le orecchie con le mani fredde coperte dai geloni e chiusero gli occhi nel mentre che lo Stuka s'abbatteva al suolo. Il boato fece tremare la terra. Poi il silenzio. Un assoluto silenzio. Storditi i bambini si levarono le mani dalle orecchie e riaprirono gli occhi, lentamente. Ma rimase tutto silenzioso, come fossero diventati sordi all’improvviso, solo l'odore dell’aria era cambiato, sapeva di fumo e di bruciato. Piano cominciarono a strisciare fuori dal fosso. S'era alzato un vento freddo e gelido, un vento che aveva il sapore della neve. I bambini stettero a osservare l'aereo spezzato in due da lontano e poi uno di loro, piccolo, sottile e smagrito prese a correre veloce verso i resti.
Si chiamava Gustavo e aveva sette anni. Correva velocissimo, una piccola scheggia con le scarpe bucate e il freddo che gli staccava le ginocchia sbucciate e le orecchie sventoline. Correva e correva e non sentì le urla di richiamo dal lontano dei campi di mamma Grazia. Era ancora assordato dallo scoppio. Si fermò a pochi metri, non sapendo bene che fare e da che parte andare ma si decise e s'avvicinò circospetto al muso dell'aereo e vide attraverso il vetro scheggiato del parabrezza il corpo del pilota.
"El xè morto?" sussultò d’improvviso sentendo il sussurro alle sue spalle di Steno, il fratello più piccolo.
"Se te casca da così in alto te mori. Sicuro." rispose lui, quasi infastidito.
"Vatu dentro ti?" Bepi aveva nove anni ed era il più grosso e grande di tutti ma il xera anche il pi’ mona. Dietro di lui erano sopraggiunti gli altri. Li poteva percepire dalla condensa nebbiosa dei fiati.
Di nuovo il silenzio venne spezzato dalla voce della mamma Grazia che li stava chiamando. Questa volta il piccolo Gustavo la sentì ma non gli venne nessuna intenzione di rispondere. Era successo un fatto incredibile.
S'aggirarono attorno ai due pezzi roventi di aereo fumante nell'aria gelida. Scoprirono che nella coda c'era un altro tedesco morto. Con gli occhi sbarrati stava riverso a una cassa di munizioni adibite alla rastrelliera del mitragliatore. C’erano tantissime cartucce e disse sbrigativo agli altri: "prendemo". Intravide tra i piedi del morto una grande borsa di pelle nera.
Fu un grosso lavoro di squadra e passa la prima cartuccera e poi la seconda e via via le altre e finito il lavoro di trasporto si pensò dove piazzarle. Pensa che ti ripensa si decise che era meglio seppellirle. Era inverno. Era più sicuro. Faceva freddo e nessuno si sarebbe messo a scavare. Ci avrebbero pensato i giorni seguenti a cosa farne, che di lì a breve sarebbe arrivata la gaurnigione tedesca che stazionava ancora in paese a controllare i resti dell’aereo. I bambini tasportate fuori tutte le munizioni, di fronte alla grande quercia, che delimitava i confini tra un podere e l'altro, scavarono con le mani un bel buco impiegandoci il suo tempo, dato che la terra era fredda e gelata e fu un lavoro piuttosto faticoso. Le interrarono e misero un sasso per ricordarsi bene il luogo del nascondiglio. Ma fecero veloci che lo sapevano che sarebbero arrivati i tedeschi. Arrivavano sempre.
Neanche da dir che i tedeschi erano massa cattivi. Erano come tutti i grandi, bisognava fare quello che volevano loro e muti e zitti che se no ti bruciavano il fienile, la casa e poi ti sparavano anca ‘dosso.
Paresempio: era successo l'anno prima alla famiglia Piccinin. Tutti morti sparati. A parte Piero che aveva pochi mesi e stava bellamente dormendo nella culla sopra. Dormiva alla grande e figuriamoci se s'era svegliato per una sventagliata di mitra. L'aveva fatto svegliare la fame ore dopo e per fortuna che stavano tutti attenti i contadini dei paraggi e avevano deciso di dare degna sepoltura quando sarebbe calata la notte e s'erano messi d'accordo con il prete don Carlo, che stava pregando nell’aia per i poveri resti della famiglia quando aveva sentito le urla strazianti del bambino al piano di sopra e s'era precipitato a prenderlo. Poi era andato a casa dei Meneghel nel podere vicino a portarlo, bisbigliando al miracolo e il Menghel padre l'aveva guardato stranito "Don Carlo setu matt? cossa te son drio dir? macchè miracolo diocan! la xe n'altra bocca da sfamare" Don Carlo s’era preso tante di quelle bestemmie che per un anno al Meneghel levò l’assoluzione o così andava dicendo in giro il Meneghel padre. Era andata a finire che un paio di mesi se lo teneva una famiglia e poi un'altra e poi un'altra e il Piero passava di famiglia in famiglia sempre sorridente, 'ché per lui era importante solo mangiare e sopravvivere e proprio in quei giorni stazionava a casa del piccolo Gustavo. Nessuno aveva detto niente. Rientrava nel conto che quella era la guerra e che sarebbe un giorno finita e loro era solo contadini da generazioni e lo sapevano com'era fatta, la guerra. Arrivavano i soldati, distruggevano, razziavano e e bisognava far sparire donne e bambini nei granai casomai volessero violentare tutti. L'unico vero fattore negativo era che in quella zona da tre decenni erano diventati tutti socialisti e si sa come andavo le cose tra socialisti e fascisti. Comunque prima delle botte e dei litigi per Mussolini, bisognava piantare e raccogliere e coltivare e mungere e mandare avanti le loro fattorie. Nonostante la guerra, brutta, violenta, affamante e disperante, i contadini lo sapevano che avevano un'altra guerra fatta di grandine e sole cocente e malattie proprie e quelle dei loro animali e delle loro piante.
Il piccolo Gustavo si strofinò le mani sporche di terra sui pantaloni e volse lo sguardo ai resti della coda. Gli si era fissata l'immagine della borsa nera. Corse verso l'aereo e sparì all'interno.
Steno gli andò appresso ma lo aspettò fuori e chiese "Cossa fatu?"
"Zitto" Era lì che passava lo sguardo dal tedesco riverso morto dagli occhi sbarrati alla borsa tra i piedi. Non che gli facesse paura il morto era solo che non ne aveva mai visto uno con gli occhi così sbarrati. Alla fine si decise e fece scivolare la borsa fuori. Non era pesante. Se la portò agilmente fuori. Non voleva aprirla. Ma neanche poteva portarla a casa. O meglio poteva ma avrebbe dovuto dare spiegazioni e lui detestava l’idea di mettersi a spiegare i come e i perché sotto lo sguardo severo di papà Angelo. Anzi peggio avrebbe dovuto dividere il contenuto con tutta la famiglia, con papà Angelo che l'avrebbe continuato a guardare in silenzio con quel suo sguardo celesteceleste che gli si apriva sempre un mezzo buco nello stomaco quando lo trapassava e uh per non parlare della mamma Grazia che, a parte il viso non aveva niente di niente di grazia, era dura e algida e terribile, uh la mamma Grazia era teribile.
Allora decise di aprirla lì subito. S'avviò deciso verso il fosso piu lontano, coperto dagli alberi. Gli altri lo seguirono. Aprì le due cinturine che tenevano chiusa la borsa nera. Tirò fuori delle carte e un libro ma era tutto scritto in tedesco e decise che le avrebbe regalate alla sua maestra Minghetti, che era gentile e buona con tutti e sapeva tenere a bada anche i più turbolenti di loro. Sfogliando il libro cadde una foto. C’erano due bambini. Li guardarono "i xè bei". disse Piero. Sorrisero. C'erano alcune lettere. Anche quelle decise che le avrebbe dato alla maestra. Tanto in casa nessuno leggeva. In fondo alla borsa avvolta dalla stagnola c'era ‘na roba. La prese con circospezione e la scartò attento. Era un pezzo di pane, coperto da una sottile glassa di zucchero bianco. Era marrone e profumava. Di cannella, di pepe e di altri odori irriconoscibili. Non aveva mai annusato quegli odori lì. Mai.
L'odore del pane li avvolse. Il piccolo Gustavo spezzò in parti uguali il pane speziato e tutti i bambini lo portarono alla bocca lentamente. Lo masticarono a lungo. Aveva un sapore dolce e ricordava quasi la pinza della zia Giovanna che faceva per il falò e il pan e vin il giorno della befana. Molto più aromatico e senza la frutta secca. Mentre masticavano chiusero gli occhi estasiati, ‘ché quel sapore era indefinibile. Era il sapore unico delle cose sconosciute eppure buonissime, di cibi lontani che nessuno di loro conosceva, di cui nemmeno il nome si sapeva. Inghiottirono e si guardarono felici.
Il piccolo Gustavo invece non mandò giù tutto l’ultimo boccone, annusò l’aria “stanotte vien giù neve” annunciò con la bocca ancora intenta a masticante. Continuava a ruminare, bizzaramente conscio della propria fame, che se ne sarebbe mangiato un altro chilo, e dell'improvvisa voglia di fuggire da quel posto affamato.
In un freddo pomeriggio della vigilia di Natale quasi ormai all'imbrunire, poco prima di cena, nessuno dei bambini avrebbe previsto che quel sapore l'avrebbero riprovato anni dopo. Da grandi. Da emigranti. Chi in Germania e chi in Svizzera. Ne impararono anche il nome: lebkuchen. E il piccolo Gustavo non se lo sarebbe mai immaginato che il sapore di quel pane speziato sarebbe rimasto incancellabile nella memoria, intrecciato all'odore di fumo e bruciato, al suono dell rombo dello Stuka caduto dal cielo e a un paio di occhi sbarrati.
Un altro Natale e un altro PSlA, tradizione inaugurata dal Sir, che è come a un panettone regalato al Sir.

dicembre 17, 2010

Il monsone

Continuavano a dire che non pioveva e quant'era strano che non piovesse e il monsone fosse così in ritardo e dov'era finito il monsone. Parevano moltissimo preoccupati. Continuavano a dire che rispetto all'anno scorso a quell'ora un bel ciclone aveva già colpito e devastato la regione. Continuavano a dire che quest'anno non c'era stata pioggia a settembre, e non c'era stata nessuna avvisaglia di monsone a ottobre e dov'era finito il monsone. E poi finalmente è arrivato. Ed è ovvio il monsone più lungo della storia del secolo. Strade e quartieri allagati, fiumi straripati e sono tutti contenti. Bisogna dire che gli indiani hanno un affascinante rapporto con i monsoni. O meglio: tutti i popoli con carenze idriche hanno un rapporto con l'acqua quasi sacrale. La sua mancanza e la conseguente disperante necessità noi occidentali non la capiamo davvero mai sino in fondo, finché non arriviamo in posti dove l'acqua non c'è e la poca che c'è non è potabile. Noi occidentali diamo per scontato che si apra il rubinetto e si beva tranquilli. E dovremmo ringraziare l'impero romano e i suoi acquedotti per averci dato questa distanza materiale, divenuta distanza culturale, di facilità con cui attingiamo alle sorgenti. Fuori dal nostro mondo l'acqua è un bene preziosissimo. E costoso. Qui si vive di bottiglie e di tanichette. Quella che scorre dai rubinetti bisogna sempre farla bollire. Ovunque ci sono avvisi per non sprecare l'acqua e s'acquistano abitudini quotidiane come quella di chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti e farsi la doccia con un secchio da 8 litri. Nessun occidentale che arriva nei paesi del secondo e terzo mondo è preparato a non avere acqua e s'innorridisce e si spaventa per la mancanza d'igiene che ne deriva. Tutto per dire che qui a metà dicembre continua a piovere e fa addirittura freddo: 23 gradi con tasso d'umidita' al 100% e che mi sto mettendo la felpa. Pesante. Non è per niente normale. Lo so: lì nevica. Ma dai, è inverno, mica state vicino ai tropici. Lo ripeto: non è normale.

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