Pordenone. 1943. Dicembre. Lebkuchen.
Giunsero prima i rombi e la banda di bambini alzò lo sguardo e avvistò gli Stuka e la luce grigia del cielo basso s'incupì, come d'estate all'arrivo della tempesta. L'odore del giorno cambiò e d’improvviso ci fu un scoppio di fuoco e scapparono a rifugiarsi nel fosso, con il cuore che batteva forte, mentre il rumore terrificante di uno Stuka che cadeva perpendicolare interrompeva la quiete in mezzo alla campagna di un freddo pomeriggio del 24 dicembre 1943.
Lo Stuka precipitò dritto e loro nascosti e ansimanti nella basso del fosso si protessero la testa con le braccia magre e tremanti, 'ché nessuno di loro aveva mai visto cadere un aereo prima. Si coprirono terrorizzati le orecchie con le mani fredde coperte dai geloni e chiusero gli occhi nel mentre che lo Stuka s'abbatteva al suolo. Il boato fece tremare la terra. Poi il silenzio. Un assoluto silenzio. Storditi i bambini si levarono le mani dalle orecchie e riaprirono gli occhi, lentamente. Ma rimase tutto silenzioso, come fossero diventati sordi all’improvviso, solo l'odore dell’aria era cambiato, sapeva di fumo e di bruciato. Piano cominciarono a strisciare fuori dal fosso. S'era alzato un vento freddo e gelido, un vento che aveva il sapore della neve. I bambini stettero a osservare l'aereo spezzato in due da lontano e poi uno di loro, piccolo, sottile e smagrito prese a correre veloce verso i resti.
Si chiamava Gustavo e aveva sette anni. Correva velocissimo, una piccola scheggia con le scarpe bucate e il freddo che gli staccava le ginocchia sbucciate e le orecchie sventoline. Correva e correva e non sentì le urla di richiamo dal lontano dei campi di mamma Grazia. Era ancora assordato dallo scoppio. Si fermò a pochi metri, non sapendo bene che fare e da che parte andare ma si decise e s'avvicinò circospetto al muso dell'aereo e vide attraverso il vetro scheggiato del parabrezza il corpo del pilota.
"El xè morto?" sussultò d’improvviso sentendo il sussurro alle sue spalle di Steno, il fratello più piccolo.
"Se te casca da così in alto te mori. Sicuro." rispose lui, quasi infastidito.
"Vatu dentro ti?" Bepi aveva nove anni ed era il più grosso e grande di tutti ma il xera anche il pi’ mona. Dietro di lui erano sopraggiunti gli altri. Li poteva percepire dalla condensa nebbiosa dei fiati.
Di nuovo il silenzio venne spezzato dalla voce della mamma Grazia che li stava chiamando. Questa volta il piccolo Gustavo la sentì ma non gli venne nessuna intenzione di rispondere. Era successo un fatto incredibile.
S'aggirarono attorno ai due pezzi roventi di aereo fumante nell'aria gelida. Scoprirono che nella coda c'era un altro tedesco morto. Con gli occhi sbarrati stava riverso a una cassa di munizioni adibite alla rastrelliera del mitragliatore. C’erano tantissime cartucce e disse sbrigativo agli altri: "prendemo". Intravide tra i piedi del morto una grande borsa di pelle nera.
Fu un grosso lavoro di squadra e passa la prima cartuccera e poi la seconda e via via le altre e finito il lavoro di trasporto si pensò dove piazzarle. Pensa che ti ripensa si decise che era meglio seppellirle. Era inverno. Era più sicuro. Faceva freddo e nessuno si sarebbe messo a scavare. Ci avrebbero pensato i giorni seguenti a cosa farne, che di lì a breve sarebbe arrivata la gaurnigione tedesca che stazionava ancora in paese a controllare i resti dell’aereo. I bambini tasportate fuori tutte le munizioni, di fronte alla grande quercia, che delimitava i confini tra un podere e l'altro, scavarono con le mani un bel buco impiegandoci il suo tempo, dato che la terra era fredda e gelata e fu un lavoro piuttosto faticoso. Le interrarono e misero un sasso per ricordarsi bene il luogo del nascondiglio. Ma fecero veloci che lo sapevano che sarebbero arrivati i tedeschi. Arrivavano sempre.
Neanche da dir che i tedeschi erano massa cattivi. Erano come tutti i grandi, bisognava fare quello che volevano loro e muti e zitti che se no ti bruciavano il fienile, la casa e poi ti sparavano anca ‘dosso.
Paresempio: era successo l'anno prima alla famiglia Piccinin. Tutti morti sparati. A parte Piero che aveva pochi mesi e stava bellamente dormendo nella culla sopra. Dormiva alla grande e figuriamoci se s'era svegliato per una sventagliata di mitra. L'aveva fatto svegliare la fame ore dopo e per fortuna che stavano tutti attenti i contadini dei paraggi e avevano deciso di dare degna sepoltura quando sarebbe calata la notte e s'erano messi d'accordo con il prete don Carlo, che stava pregando nell’aia per i poveri resti della famiglia quando aveva sentito le urla strazianti del bambino al piano di sopra e s'era precipitato a prenderlo. Poi era andato a casa dei Meneghel nel podere vicino a portarlo, bisbigliando al miracolo e il Menghel padre l'aveva guardato stranito "Don Carlo setu matt? cossa te son drio dir? macchè miracolo diocan! la xe n'altra bocca da sfamare" Don Carlo s’era preso tante di quelle bestemmie che per un anno al Meneghel levò l’assoluzione o così andava dicendo in giro il Meneghel padre. Era andata a finire che un paio di mesi se lo teneva una famiglia e poi un'altra e poi un'altra e il Piero passava di famiglia in famiglia sempre sorridente, 'ché per lui era importante solo mangiare e sopravvivere e proprio in quei giorni stazionava a casa del piccolo Gustavo. Nessuno aveva detto niente. Rientrava nel conto che quella era la guerra e che sarebbe un giorno finita e loro era solo contadini da generazioni e lo sapevano com'era fatta, la guerra. Arrivavano i soldati, distruggevano, razziavano e e bisognava far sparire donne e bambini nei granai casomai volessero violentare tutti. L'unico vero fattore negativo era che in quella zona da tre decenni erano diventati tutti socialisti e si sa come andavo le cose tra socialisti e fascisti. Comunque prima delle botte e dei litigi per Mussolini, bisognava piantare e raccogliere e coltivare e mungere e mandare avanti le loro fattorie. Nonostante la guerra, brutta, violenta, affamante e disperante, i contadini lo sapevano che avevano un'altra guerra fatta di grandine e sole cocente e malattie proprie e quelle dei loro animali e delle loro piante.
Il piccolo Gustavo si strofinò le mani sporche di terra sui pantaloni e volse lo sguardo ai resti della coda. Gli si era fissata l'immagine della borsa nera. Corse verso l'aereo e sparì all'interno.
Steno gli andò appresso ma lo aspettò fuori e chiese "Cossa fatu?"
"Zitto" Era lì che passava lo sguardo dal tedesco riverso morto dagli occhi sbarrati alla borsa tra i piedi. Non che gli facesse paura il morto era solo che non ne aveva mai visto uno con gli occhi così sbarrati. Alla fine si decise e fece scivolare la borsa fuori. Non era pesante. Se la portò agilmente fuori. Non voleva aprirla. Ma neanche poteva portarla a casa. O meglio poteva ma avrebbe dovuto dare spiegazioni e lui detestava l’idea di mettersi a spiegare i come e i perché sotto lo sguardo severo di papà Angelo. Anzi peggio avrebbe dovuto dividere il contenuto con tutta la famiglia, con papà Angelo che l'avrebbe continuato a guardare in silenzio con quel suo sguardo celesteceleste che gli si apriva sempre un mezzo buco nello stomaco quando lo trapassava e uh per non parlare della mamma Grazia che, a parte il viso non aveva niente di niente di grazia, era dura e algida e terribile, uh la mamma Grazia era teribile.
Allora decise di aprirla lì subito. S'avviò deciso verso il fosso piu lontano, coperto dagli alberi. Gli altri lo seguirono. Aprì le due cinturine che tenevano chiusa la borsa nera. Tirò fuori delle carte e un libro ma era tutto scritto in tedesco e decise che le avrebbe regalate alla sua maestra Minghetti, che era gentile e buona con tutti e sapeva tenere a bada anche i più turbolenti di loro. Sfogliando il libro cadde una foto. C’erano due bambini. Li guardarono "i xè bei". disse Piero. Sorrisero. C'erano alcune lettere. Anche quelle decise che le avrebbe dato alla maestra. Tanto in casa nessuno leggeva. In fondo alla borsa avvolta dalla stagnola c'era ‘na roba. La prese con circospezione e la scartò attento. Era un pezzo di pane, coperto da una sottile glassa di zucchero bianco. Era marrone e profumava. Di cannella, di pepe e di altri odori irriconoscibili. Non aveva mai annusato quegli odori lì. Mai.
L'odore del pane li avvolse. Il piccolo Gustavo spezzò in parti uguali il pane speziato e tutti i bambini lo portarono alla bocca lentamente. Lo masticarono a lungo. Aveva un sapore dolce e ricordava quasi la pinza della zia Giovanna che faceva per il falò e il pan e vin il giorno della befana. Molto più aromatico e senza la frutta secca. Mentre masticavano chiusero gli occhi estasiati, ‘ché quel sapore era indefinibile. Era il sapore unico delle cose sconosciute eppure buonissime, di cibi lontani che nessuno di loro conosceva, di cui nemmeno il nome si sapeva. Inghiottirono e si guardarono felici.
Il piccolo Gustavo invece non mandò giù tutto l’ultimo boccone, annusò l’aria “stanotte vien giù neve” annunciò con la bocca ancora intenta a masticante. Continuava a ruminare, bizzaramente conscio della propria fame, che se ne sarebbe mangiato un altro chilo, e dell'improvvisa voglia di fuggire da quel posto affamato.
In un freddo pomeriggio della vigilia di Natale quasi ormai all'imbrunire, poco prima di cena, nessuno dei bambini avrebbe previsto che quel sapore l'avrebbero riprovato anni dopo. Da grandi. Da emigranti. Chi in Germania e chi in Svizzera. Ne impararono anche il nome: lebkuchen. E il piccolo Gustavo non se lo sarebbe mai immaginato che il sapore di quel pane speziato sarebbe rimasto incancellabile nella memoria, intrecciato all'odore di fumo e bruciato, al suono dell rombo dello Stuka caduto dal cielo e a un paio di occhi sbarrati.
Lo Stuka precipitò dritto e loro nascosti e ansimanti nella basso del fosso si protessero la testa con le braccia magre e tremanti, 'ché nessuno di loro aveva mai visto cadere un aereo prima. Si coprirono terrorizzati le orecchie con le mani fredde coperte dai geloni e chiusero gli occhi nel mentre che lo Stuka s'abbatteva al suolo. Il boato fece tremare la terra. Poi il silenzio. Un assoluto silenzio. Storditi i bambini si levarono le mani dalle orecchie e riaprirono gli occhi, lentamente. Ma rimase tutto silenzioso, come fossero diventati sordi all’improvviso, solo l'odore dell’aria era cambiato, sapeva di fumo e di bruciato. Piano cominciarono a strisciare fuori dal fosso. S'era alzato un vento freddo e gelido, un vento che aveva il sapore della neve. I bambini stettero a osservare l'aereo spezzato in due da lontano e poi uno di loro, piccolo, sottile e smagrito prese a correre veloce verso i resti.
Si chiamava Gustavo e aveva sette anni. Correva velocissimo, una piccola scheggia con le scarpe bucate e il freddo che gli staccava le ginocchia sbucciate e le orecchie sventoline. Correva e correva e non sentì le urla di richiamo dal lontano dei campi di mamma Grazia. Era ancora assordato dallo scoppio. Si fermò a pochi metri, non sapendo bene che fare e da che parte andare ma si decise e s'avvicinò circospetto al muso dell'aereo e vide attraverso il vetro scheggiato del parabrezza il corpo del pilota.
"El xè morto?" sussultò d’improvviso sentendo il sussurro alle sue spalle di Steno, il fratello più piccolo.
"Se te casca da così in alto te mori. Sicuro." rispose lui, quasi infastidito.
"Vatu dentro ti?" Bepi aveva nove anni ed era il più grosso e grande di tutti ma il xera anche il pi’ mona. Dietro di lui erano sopraggiunti gli altri. Li poteva percepire dalla condensa nebbiosa dei fiati.
Di nuovo il silenzio venne spezzato dalla voce della mamma Grazia che li stava chiamando. Questa volta il piccolo Gustavo la sentì ma non gli venne nessuna intenzione di rispondere. Era successo un fatto incredibile.
S'aggirarono attorno ai due pezzi roventi di aereo fumante nell'aria gelida. Scoprirono che nella coda c'era un altro tedesco morto. Con gli occhi sbarrati stava riverso a una cassa di munizioni adibite alla rastrelliera del mitragliatore. C’erano tantissime cartucce e disse sbrigativo agli altri: "prendemo". Intravide tra i piedi del morto una grande borsa di pelle nera.
Fu un grosso lavoro di squadra e passa la prima cartuccera e poi la seconda e via via le altre e finito il lavoro di trasporto si pensò dove piazzarle. Pensa che ti ripensa si decise che era meglio seppellirle. Era inverno. Era più sicuro. Faceva freddo e nessuno si sarebbe messo a scavare. Ci avrebbero pensato i giorni seguenti a cosa farne, che di lì a breve sarebbe arrivata la gaurnigione tedesca che stazionava ancora in paese a controllare i resti dell’aereo. I bambini tasportate fuori tutte le munizioni, di fronte alla grande quercia, che delimitava i confini tra un podere e l'altro, scavarono con le mani un bel buco impiegandoci il suo tempo, dato che la terra era fredda e gelata e fu un lavoro piuttosto faticoso. Le interrarono e misero un sasso per ricordarsi bene il luogo del nascondiglio. Ma fecero veloci che lo sapevano che sarebbero arrivati i tedeschi. Arrivavano sempre.
Neanche da dir che i tedeschi erano massa cattivi. Erano come tutti i grandi, bisognava fare quello che volevano loro e muti e zitti che se no ti bruciavano il fienile, la casa e poi ti sparavano anca ‘dosso.
Paresempio: era successo l'anno prima alla famiglia Piccinin. Tutti morti sparati. A parte Piero che aveva pochi mesi e stava bellamente dormendo nella culla sopra. Dormiva alla grande e figuriamoci se s'era svegliato per una sventagliata di mitra. L'aveva fatto svegliare la fame ore dopo e per fortuna che stavano tutti attenti i contadini dei paraggi e avevano deciso di dare degna sepoltura quando sarebbe calata la notte e s'erano messi d'accordo con il prete don Carlo, che stava pregando nell’aia per i poveri resti della famiglia quando aveva sentito le urla strazianti del bambino al piano di sopra e s'era precipitato a prenderlo. Poi era andato a casa dei Meneghel nel podere vicino a portarlo, bisbigliando al miracolo e il Menghel padre l'aveva guardato stranito "Don Carlo setu matt? cossa te son drio dir? macchè miracolo diocan! la xe n'altra bocca da sfamare" Don Carlo s’era preso tante di quelle bestemmie che per un anno al Meneghel levò l’assoluzione o così andava dicendo in giro il Meneghel padre. Era andata a finire che un paio di mesi se lo teneva una famiglia e poi un'altra e poi un'altra e il Piero passava di famiglia in famiglia sempre sorridente, 'ché per lui era importante solo mangiare e sopravvivere e proprio in quei giorni stazionava a casa del piccolo Gustavo. Nessuno aveva detto niente. Rientrava nel conto che quella era la guerra e che sarebbe un giorno finita e loro era solo contadini da generazioni e lo sapevano com'era fatta, la guerra. Arrivavano i soldati, distruggevano, razziavano e e bisognava far sparire donne e bambini nei granai casomai volessero violentare tutti. L'unico vero fattore negativo era che in quella zona da tre decenni erano diventati tutti socialisti e si sa come andavo le cose tra socialisti e fascisti. Comunque prima delle botte e dei litigi per Mussolini, bisognava piantare e raccogliere e coltivare e mungere e mandare avanti le loro fattorie. Nonostante la guerra, brutta, violenta, affamante e disperante, i contadini lo sapevano che avevano un'altra guerra fatta di grandine e sole cocente e malattie proprie e quelle dei loro animali e delle loro piante.
Il piccolo Gustavo si strofinò le mani sporche di terra sui pantaloni e volse lo sguardo ai resti della coda. Gli si era fissata l'immagine della borsa nera. Corse verso l'aereo e sparì all'interno.
Steno gli andò appresso ma lo aspettò fuori e chiese "Cossa fatu?"
"Zitto" Era lì che passava lo sguardo dal tedesco riverso morto dagli occhi sbarrati alla borsa tra i piedi. Non che gli facesse paura il morto era solo che non ne aveva mai visto uno con gli occhi così sbarrati. Alla fine si decise e fece scivolare la borsa fuori. Non era pesante. Se la portò agilmente fuori. Non voleva aprirla. Ma neanche poteva portarla a casa. O meglio poteva ma avrebbe dovuto dare spiegazioni e lui detestava l’idea di mettersi a spiegare i come e i perché sotto lo sguardo severo di papà Angelo. Anzi peggio avrebbe dovuto dividere il contenuto con tutta la famiglia, con papà Angelo che l'avrebbe continuato a guardare in silenzio con quel suo sguardo celesteceleste che gli si apriva sempre un mezzo buco nello stomaco quando lo trapassava e uh per non parlare della mamma Grazia che, a parte il viso non aveva niente di niente di grazia, era dura e algida e terribile, uh la mamma Grazia era teribile.
Allora decise di aprirla lì subito. S'avviò deciso verso il fosso piu lontano, coperto dagli alberi. Gli altri lo seguirono. Aprì le due cinturine che tenevano chiusa la borsa nera. Tirò fuori delle carte e un libro ma era tutto scritto in tedesco e decise che le avrebbe regalate alla sua maestra Minghetti, che era gentile e buona con tutti e sapeva tenere a bada anche i più turbolenti di loro. Sfogliando il libro cadde una foto. C’erano due bambini. Li guardarono "i xè bei". disse Piero. Sorrisero. C'erano alcune lettere. Anche quelle decise che le avrebbe dato alla maestra. Tanto in casa nessuno leggeva. In fondo alla borsa avvolta dalla stagnola c'era ‘na roba. La prese con circospezione e la scartò attento. Era un pezzo di pane, coperto da una sottile glassa di zucchero bianco. Era marrone e profumava. Di cannella, di pepe e di altri odori irriconoscibili. Non aveva mai annusato quegli odori lì. Mai.
L'odore del pane li avvolse. Il piccolo Gustavo spezzò in parti uguali il pane speziato e tutti i bambini lo portarono alla bocca lentamente. Lo masticarono a lungo. Aveva un sapore dolce e ricordava quasi la pinza della zia Giovanna che faceva per il falò e il pan e vin il giorno della befana. Molto più aromatico e senza la frutta secca. Mentre masticavano chiusero gli occhi estasiati, ‘ché quel sapore era indefinibile. Era il sapore unico delle cose sconosciute eppure buonissime, di cibi lontani che nessuno di loro conosceva, di cui nemmeno il nome si sapeva. Inghiottirono e si guardarono felici.
Il piccolo Gustavo invece non mandò giù tutto l’ultimo boccone, annusò l’aria “stanotte vien giù neve” annunciò con la bocca ancora intenta a masticante. Continuava a ruminare, bizzaramente conscio della propria fame, che se ne sarebbe mangiato un altro chilo, e dell'improvvisa voglia di fuggire da quel posto affamato.
In un freddo pomeriggio della vigilia di Natale quasi ormai all'imbrunire, poco prima di cena, nessuno dei bambini avrebbe previsto che quel sapore l'avrebbero riprovato anni dopo. Da grandi. Da emigranti. Chi in Germania e chi in Svizzera. Ne impararono anche il nome: lebkuchen. E il piccolo Gustavo non se lo sarebbe mai immaginato che il sapore di quel pane speziato sarebbe rimasto incancellabile nella memoria, intrecciato all'odore di fumo e bruciato, al suono dell rombo dello Stuka caduto dal cielo e a un paio di occhi sbarrati.
Un altro Natale e un altro PSlA, tradizione inaugurata dal Sir, che è come a un panettone regalato al Sir.