Il Post sotto l'Albero colpisce ancora
Ottobre. Anno del Signore 1441
Si era una settimana prima del matrimonio di Bianca Maria Visconti e del condottiero Sforza, a Cremona, quando una sera tersa e senza luna, trafelato arrivò da Ramino, nella bottega sbattendo al porta, Giacomino il suo figlioletto, che sussurrò con le lacrime agli occhi: babbo babbo è morto il nonno.
Ramino sbiancò. Iniziò a imprecare, prendendo a calci il pentolone di rame che stava sul fuoco, maledicendo il geniale pasticciere Piero nonché suocero, che proprio adesso doveva venire a mancare, che iddio lo strafulminasse lui e la sua genia tutta. Si fermò indi perplesso, perché s’era scordato nella furia che l’aveva colto, che nella genia ci rientrava pure Giacomino suo adorato, che lo stava, giustappunto, guardando con malcelato supore negli occhi innocenti. Giacomino si sapeva aveva molto amato il nonno materno, assai ricambiato, per amor del vero. Ramino si sedette e pensò a innumerevoli soluzioni e cambiamenti che si potessero attuare di lì al 25 ottobre, che cadeva una settimana dopo e quasi si sarebbe messo a piangere, di certo non per il dolore, ma per la rabbia frustrata e impotente. Perché lui adesso doveva pensare a fare il dolce tutto da solo, senza una ricetta che fosse una, che il suocero, maledetto, che bruciasse all’inferno, pazzo ubriacone, non sapeva scrivere e non aveva detto e dettato nulla in quei lunghi anni che s’era lavorato assieme. Così la ricetta era rimasta segreta, di generazione in generazione, e Ramino non era riuscito a prendere degne note sulle quantità, perché il vecchio bastardo nascondeva e millantava.
Si doveva pensare ai funerali che dovevano avvenire quanto prima, di lì a poco sarebbero congiunti in matrimonio il Condottiero Sforza e la sua giovane Duchessa, di cui si diceva fosse non bella, ma istruita di molto. Ci sarebbe stato anche il Duca Visconti, omo ambiguo e viscido, che aveva di qua e di là fatto ingenti danni alle terre di Cremona. Si mormorava che le stesse fossero state donate in dote alla giovine Duchessa e che quindi sarebbero andate a far parte dell’amministrazione del Condottiero Sforza, omo assai intelligente, ma d’animo burrascoso e con la nomea d’essere abile cacciatore di femmine. Tanto male si diceva del Duca, altrettanto bene si parlava della sua giovine figlia Bianca Maria, dall’animo ferreo e preciso, su cui molti riponevano speranza di tempi migliori.
Ramino tentò di consolare il suo Giacomino e s’avviarono verso la casa del suocero. Ivi s’era adunata una piccola folla vociante. Ramino scoprì con suo enorme disappunto, che alcuni tra loro esprimevano le sue medesime preoccupazioni sul dolce, che andava presentato al matrimonio. Arrivò a una certa ora il parroco Don Carlo. Tranquillo parlò alla congrega di astanti, calmò animi e dispendiò benedizioni e poi rispedì a casa tutti, tranne i famigliari stretti: Ramino e Giacomino. Che le donne di famiglia avevano lasciato questa valle di lacrime appena partorito.
Don Carlo si sedette e parlò: E’ tutto pronto?
Ramino sedutosi anch’egli, con fare innocente, rispose: Come? Di cosa parlate?
Don Calo: ma buonuomo, del dolce che dovremmo servire al matrimonio di Nostra Signoria! E tutto pronto vero?
E fu lì che Ramino capì che insieme al suo suocero Piero, dannato nelle fiamme brucianti degli inferi, egli pure sarebbe bruciato negli inferi medesimi. E rimase impressa nella sua mente, fino al giorno della sua morte, anni e anni dopo, la sensazione di orrendo malessere che un omo probo non è abituato ad avere mai: quella di sperduta inadeguatezza.
Ramino era un bravomo. Non bestemmiava, non beveva, non picchiava niuno. Aveva molto amato la sua santa Giuseppina, che il Signore l’avesse in gloria, ed era morto di dolore quand’ella era spirata, causa il puerperio infetto, lasciandogli da crescere Giacomino, a cui lui aveva trasferito tutto l’amore rimastogli. Era omo molto stimato in tutta Cremona, perché era preciso e responsabile. Era un omo serio forsanche noioso, ma dedito al suo lavoro e devoto al suo Giacomino. E tutta Cremona che molto lo stimava, sapeva benissimo che l’unico omo sulla terra che Ramino aveva in gran dispregio e odio era uno e uno solo: il suocero pasticciere Piero. Ramino era andato a bottega giovanissimo da quel pazzo, stravagante e geniale mastro pasticciere di nome Piero, ed era rimasto garzone, fino a quando non aveva chiesto in sposa la di lui figlia Giuseppina. E se prima Piero provava qualche stima e attaccamento per il giovane, i medesimi sentimenti caddero come alberi sotto la furia d’uno squassante uragano. I cremonesi non riusciron mai a capire sino in fondo i veri motivi dell’astio che andò negli anni via via aumentando, sfociando in odio e rancore. Nessuno capiva neanche come mai Ramino non se ne andasse. Rimaneva in tutti l'intuizione che tanto il pasticciere Piero odiava Ramino, con forza ricambiato, tanto adorava il nipotino Giacomino. E tale fatto era straordinario, tale l’amore per il piccolo pareva facesse da collante all’odio dei due omini.
Due giorni dopo la morte del pasticciere Piero, ci fu il funerale dove gli si dette adeguata sepoltura. Avvenne che alla funzione Giacomino scoppiasse in grandi pianti e lamenti. Tutte le genti presenti finirono per commuoversi, frastornati nel vedere un così dilagante dolore da un essere ‘sì piccino. Nessuno riuscì a farlo smettere e lo si dovette trascinare via a forza. Mentre più lo si allontanava, più le urla straziate di Giacomino si levavano alte. Ramino, soggiogato, vanamente tentava di porre rimedio al dolore del fanciullo.
Alla fine fecero ritorno, mano nella mano, alla bottega. Giacomino si sedette per terra e rimase lì, stremato, con le lacrime che gli scendevano senza sosta. Ramino confidò nel fatto che per farlo straviare fosse d’obbligo tenerlo occupato e con dolcezza gli parlò.
Gli sussurrò: In questi giorni dovremmo lavorare molto, perché c’è il matrimonio della Duchessa, sai dicono che abbia molto studiato. Dicono che sappia leggere e scrivere, pensa!
Mentre gli parlava andò via via raccontando al bambino tutte le favole che aveva sentito dire sui Visconti, sulla loro vanità nonché crudeltà. Pian piano Giacomino si acquietò, non piangeva più, rimaneva con gli occhi pieni di lacrime a malapena trattenute, parendo stesse ascoltare, quasi interessato.
Ramino finì: Ora si va a letto, che domani bisogna prepararsi a parlare con il mercante che ci deve dar le mandorle e lo zucchero e bisogna pensare a fare un dolce che porti onore alla nostra città.
Giacomino alzò lo sguardo sull’amato padre e gli disse: Posso aiutarti?
Ramino rispose con il battito di cuore accelerato: Ma certo che puoi.
Giacomino annuì e se ne uscì con la frase: Posso fare un dolce grande come il Torrazzo, con il torrone del nonno?
Ramino sorrise triste: Eh grande così non si può fare! E il torrone del nonno Piero...s’interruppe, provando il malcelato odio non ancora passato, anzi rinvigorito dal fatto di non poter accontentare l’addolorato Giacomino, in un momento di gran bisogno; si riprese finendo mogio la frase: il torrone del nonno Piero io non so farlo, bene come lui.
Stava per dirgli che non aveva le dosi, la pazienza e la mano del geniale mastro pasticciere Piero, che potesse, nei secoli e seculorum a venire, bruciare nelle fiamme degli inferi.
Giacomino, quasi avesse letto il pensiero del padre, e ne avesse presagito la mancanza di conoscenza di cosa nota, fissò lo sguardo negli occhi del padre Ramino e se ne uscì: Dovevo mantenere il segreto, l’avevo promesso al nonno, che mi ha insegnato la ricetta. Adesso che non c’è -respirò forte e strinse le labbra- posso anche non tenere il segreto e il torrone lo facciamo assieme,
A Ramino la terra sotto i piedi s’aprì e fu come uscire dalla notte e ritrovarsi a fissare il sole tanto da rimanerne accecati. Fu come quando vide per la prima volta l’adorata santa Giuseppina, che il Signore l’avesse in gloria. Fu come quando vide per la prima volta il faccino dell’amato Giacomino suo. Seppe con assoluta e religiosa certezza che il dolce sarebbe stato il più bel dolce di matrimonio dell’epoca sua, che sarebbe entrato nelle cronache delle corti di ogni dove. Sorrise beato e strinse a sé il suo amato Giacomino, liberato dall’angustia e dall’odio.
Il giorno dopo uscirono dalla bottega per acquistare tutti gli ingredienti. Prima passarono dalla chiesa e parlaron a lungo con Don Carlo, che diede loro parte dei denari, per iniziare l’impresa, a cui tutti cremonesi stavano dando vita.
Per tre notti e tre giorni Romino e Giacomino lavorarono concentrati e far uscire il dolce dal paiolo di rame. Mescolarono mieli dai sapori diversi. Sbatterono bianche d’ova nella pentola d rame, tante e tante che si formò un monte di gusci vuoti accanto alla porta. Fecero una nuvola grande come quelle che passavano nel cielo di Cremona, tostarono chili e chili di mandorle, continuarono a rimestare e poi copiando i disegni che Giacomino aveva fatto del Torrazzo, iniziarono la loro opera di dolce architettura. Impiegarono un giorno a formare le basi e poi un altro ad alzare la struttura. Misero nel forno la parte centrale e la cuocettereo per poche ore, a bassa temperatura, facendo attenzione che le legna per il forno non fossero troppe. La parte esterna venne cotta più a lungo e a fuoco più caldo. Giacomino aveva detto che dentro doveva essere morbido e fuori invece croccante assai.
Intanto s’era arrivati al 25 ottobre, e si seppe che tutta la cerimonia era stata spostata dal Duomo all’abbazia di S. Sigismondo, per le paure e manie di sicurezza che avevano colto il Condottiero, che diffidava del torbido suocero. Le sale per il pranzo dovettero essere di nuovo controllate e mercenari e soldati andarono avanti e indietro. La folla si radunò per acclamare il coppia nuziale che uscì sposata e soddisfatta dalla chiesa.
Ramino e Giacomino arrivarono con il loro dolce avvolto da bianche garze, trasportato sul carretto, nelle cucine, e tutti i cuochi si affannarono a portarlo di sopra e si scoprì che non bastava lo spazio sul vassoio. Dopo il primo momento di smarrimento e bestemmie e invocazioni, si trovò una soluzione. In quattro e quattrotto si costruì una tavolata con braccioli atti al trasporto e la si ricoprì di tessuti pregiati e petali di rosa. Si posò sopra il dolce e s’iniziò a spacchettarlo dalle bende e garze. Ramino e Giacomino erano assai fieri della loro opera, ma essendo d’animo umile e tranquillo, non avevano capito d’aver prodotto un immenso capolavoro. Ma se loro non lo capirono, tutti gli altri invece rimasero soggiogati da tanta bellezza bianca e possente. Un aroma paradisiaco di mandorle e miele avvolse tutti, e stettero silenziosi mentre ci giravano attorno, estasiati. Poi si ruppe l’incantesimo in cui erano caduti e alta esplose la gioia, scoppiarono in sonanti grida di giubilo. Abbracciarono commossi Ramino, che schernendosi disse con felice orgoglio paterno: oh no no, non fate così, è stato Giacomino che m’ha aiutato e ha avuto l’idea. Al che Giacomino venne afferrato nella giubilo generale e fu quasi portato a trionfo.
Dopo le varie giornate di festeggiamenti e banchetti, la festa nuziale stava volgendo al termine e s’era giunti al momento del dolce. I cremonesi portarono il loro dolce avvolto da un velo dorato, alla coppia di sposi. La Duchessa, bionda e sorridente, venne invitata a togliere il velo e apparve il Torrazzo, facendo medesima impressione fatta nelle cucine. Dopo un meravigliato ohhh esplose un applauso senza fine. La Duchessa vestita di ori e gioielli, di tessuti vellutati dai vividi colori, chiese chi fosse il mastro tanto abile da costruire una simile maraviglia.
Le venne portato, quasi trascinato, Ramino recalcitante, che si piegò in un inchino e mormorò soggiogato da tanta preziosa ricchezza: Grazie Vossignoria, grazie. Poi smise di balbettare ringraziamenti e disse con voce chiara: in verità è il mio figliolo che ha avuto l’idea.
Venne portato al cospetto della Duchessa e del Condottiero Sforza, Giacomino che era bellino molto, piccolo e magro, ma non macilento, istruito da generazioni di mastri pasticcieri, di cui il miglior era stato l’amato nonno. Si intravedeva dalla postura serena e tranquilla che era un bambino molto amato. Giacomino si inchinò, sorrise gentile e s’avvicinò senza timori alla Duchessa, porse un pezzettino di torrone, che aveva preso dall’interno, della costruzione. La Duchessa ringraziò, prese il dolce e iniziò a mangiarlo, mentre nella sala era sceso un silenzio improvviso. Tutti i cortigiani seguivano la scena affascinati e preoccupati dall’espressione apparsa sul volto del Duca Visconti che si andava immaginando la stessero avvelenando. Forse fu vero veleno ma sta di fatto che quando la Duchessa assaggiò il dolce fatto da Giacomino e Ramino, tra mandorle e miele, s’impresse sulla sua lingua la dolcezza dei ricordi futuri e la croccantezza dei dolori che avrebbe passato.
Assaporò la ricetta segreta del geniale e perduto mastro pasticciere Piero, che Giacomino aveva rispettato, rifatto e modellato tramite la mano abile di Ramino. Aprì gli occhi, fissò Giacomino, che ricambiò lo sguardo tranquillo, con un velo di tristezza dalla perdita, gli parlò. E Giacomino, figlio adorato di Ramino, rispose.