marzo 01, 2006

1965. Zurigo-Napoli. Il cestino.


Arrivavano le vacanze di Natale. E mi venivano tutti a prendere e si partiva dalla stazione di Zurigo per andare giù. A casa della nonna Teresa. La stazione di Zurigo era tutta pulita, grande e rumorosa, e il treno su cui salivamo era di solito preso d'assalto da una fiumana di italiani che rientrava, pieni di regali da portare ai figli, alle madri, alle mogli, alle famiglie, accasa. Un assalto che finiva sempre per mettere d'accordo tutti. Erano abbracci e sorrisi e c'era un'immane allegra gentilezza perché si tornava accasa, laggiù, una terra soleggiata, lontana e disgraziata. Si saliva sul treno e iniziava il viaggio ed era LUNGHISSIMO: un'eternità di viaggio. Durava un giorno o due giorni. Si ci accomodava nello scomodissimo scompartimento come se fosse il salotto di una casa e si tentava di mettersi comodi con alcune valigie in mezzo a mo' di tavolino. Si faceva amicizia con gli estranei e noi pochissimi bambini correvamo lungo il corridoio oppure stavamo attaccati alla finestra che era uno spettacolo lentolento quello che scorreva dinanzi agli occhi. La zia Giuseppina e zio Mimì parlottavano del rientro che bisognava portare la sopressa, il pane e l'olio e già stavano organizzando tutto per tutti. Mia madre trovava sempre posto nello scompartimento mentre gli uomini in genere stavano seduti nei corridoi a fumare e parlottare. Tutti tiravano fuori dalle valigie i pranzi, ma mio padre no. Lui era diverso. Lui era un vero nordico. Detestava portarsi dietro il cibo. Mio padre 'sta storia di portarsi il panino lo schifava. Immagino fosse l'unico di tutto il treno a comprarsi il cestino da viaggio. Lui scendeva alla stazione di Milano per andare a comprarlo con grande disapprovazione della zia Giuseppina e di zio Mimì che era uno chef vero. Di fondo mia madre da vera parvenue il cestino l'approvava. Pertanto io ero l'unica bambina di tutto il treno che aveva sulle sue gambe il cestino da viaggio. La famiglia intera ci guardava con somma aria di nauseata disapprovazione, e non erano gli unici, gli altri lo stesso. Ma a me il cestino piaceva assai. Assai. Sul serio. E mangiavo tutta contenta e fiera mentre gli altri bambini mi guardavano tra l'invidia e la soggezione. Pensavano contenesse svariate schifezze ma in verità c'era un'enorme fettona di lasagna grondante olio burro e besciamella con pochissimo sugo. Il commento orripilato di zio Mimì era -ndo' sta o ragù?!- mentre zia Giuseppina scuoteva la testa-povera creatura che ti fanno mangiare! e papà invariabilmente affermava -xe bon!. Il cestino da viaggio conteneva anche una frutta e un pezzo di formaggio e un panino molliccio. Forchettina e tovagliolo. Chicchissimo.
E si passava il tempo a giocare carte, a fare la maglia, a raccontare tutta la storia di un'esistenza tra padroni cattivi, orribili, sfruttatori, paghe così così oppure buone, comunque ottime rispetto alla miseria e di case che si dovevano costruire e di fatiche immani e di sacrifici straziati famigliari. Di lontananza e nostalgia della propria terra che lentalenta s'avvicinava. E pure io me ne accorgevo dal paesaggio che lentolento cambiava, dalle montagne, alle colline e le pianure e poi la costa e i cipressi e le rocce. I colori del verde intenso dei pascoli svizzeri si trasformavano all'azzurro abbagliante del sud, all'argento degli olivi della Toscana e al verdemare dell'agave a strapiombo sul mare scintillante. Si scendeva a Napoli e d'un tratto tutto era violento, intenso, urlato e pieno di colori e odori, puzze e profumi che solo lì c'erano che erano gli odori, le puzze e i profumi della nonna Teresa che vestita di nero ci aspettava impaziente e c'accoglieva tra abbracci, lacrime, baci e sorrisi. E il cestino io me lo portavo sempre appresso finché non si arrivava a casa di nonna. Che il cestino nessuno riusciva a buttarmelo via, nonostante le insistenze di tutti incluse quelle di papà. Che il cestino a me piaceva assai. Assai. Strana 'sta cosa.

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3 Comments:

Blogger m said...

e come era bèlla la coppia di mandarini nel cestino... e poi quell'ansia tipica d'una generazione: non esser più né di lì, né di là, nascondendo a ogni ritorno la sconfitta della partènza.

4:59 PM  
Anonymous Anonimo said...

quello che stavo cercando, grazie

5:19 AM  
Anonymous Anonimo said...

necessita di verificare:)

5:34 AM  

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