aprile 25, 2009

Kato Shuichi




Conobbi Kato Sensei (ché io lo chiamavo Maestro e così per me è rimasto) nei miei primi anni universitari a Venezia ed era un essere piccolo, tenero e curiosissimo, che faceva domande su cose che allora ti sembravano buffe davvero. Del tipo: perché i camini di Venezia avevano quell'aspetto lì e perché erano stati costruiti così. Era curioso su tutto: su di te, sulla tua vita, sul perché credevi nel comunismo. Su cosa avevi letto, quanto e quando, ti chiedeva di tutto. E poi pensava. Di fronte alla Giudecca alle Zattere, seduto al bar dove l'avevo portato a mangiare il gianduiotto da passeggio (un gelato al gianduja con la panna, una roba buonissima che si mangiava solo lì e che a lui piacque tantissimo, tant'è che divenne in seguito una sorta di appuntamento pomeridiano davanti al gianduiotto a discutere dei destini del mondo, e si facevano mille ipotesi su futuri possibili), fui io a chiedergli perché fosse diventato comunista lui (o almeno quello che allora si pensava essere comunista, volere una società non divisa per classi, per nazioni, per etnie. Di questi tempi la definizione corretta sarebbe libertario di sinistra). Rise rilassandosi e mi raccontò che quando era giovane gli piaceva un sacco andare da solo al cinema. Stava guardando un film quando entrò una banda di militari nazionalisti che aveva agguantato un giovane seduto a poche file da lui, l'aveva preso, trasportato fuori mentre questo urlava abunaiabunai (aiutoaiuto) e picchiato selvaggiamente. Gli urli erano cessati in pochi secondi. Gli spettatori rimasti in sala s'erano rattrappiti sulle sedie e allora lui, con la straordinaria incoscienza della gioventù, s'era alzato ed era uscito a vedere se abunaiabunai fosse ancora vivo. Una massa di sangue giaceva a terra e scoprì che era uno scrittore dissidente che divenne poi suo grande amico. All'inizio della Seconda Guerra Mondiale, lì davanti a quel corpo sbrandellato, Sensei comprese lucidamente che lui era giapponese e viveva in un regime nazional-imperialista. Era fiero di essere giapponese, ma non poteva spartire niente delle sue intime convinzioni con un regime che della violenza, del razzismo, dell'imperialismo e della mancanza di libertà faceva bella mostra. Lui era un pacifista convinto e lottò tutta la sua vita affinché gli altri, giapponesi e non, capissero che con le guerre il nulla avanzava, e pacifista rimase sino alla fine. Quando si laureò in Medicina diventando ematologo, andò a Hiroshima per curare una serie di malattie sconosciute allora alla scienza, dovute alle radiazioni. Ne rimase così colpito e impressionato da avere una dolorosa crisi di coscienza, tanto che cambiò lavoro, perché il mondo doveva sapere che la guerra e la stupidità umana non dovevano progredire. Divenne negli anni del dopoguerra uno dei maggiori studiosi giapponesi, amico fraterno di grandi scrittori e grandi poeti, egli stesso scrittore e poeta. Conosceva una quantità di lingue e le parlava tutte benissimo. Aveva una cultura impressionante sia d'Occidente che d'Oriente, un immenso pozzo di conoscenza.
Uno quando è giovane non sa quando viene toccato dalla Storia (quella roba con la S maiuscola), pertanto solo con il tempo ho capito quanto fosse importante quest'uomo e quanto io sia stata fortunata ad averlo conosciuto e averlo avuto come caro amico, che consigliava, dava dritte sugli autori, diceva cose impensabili ai tempi (del tipo: dell'autore Mishima tradotto e adorato da folle di italioti, Kato Sensei mi disse: lascia perdere, scrive neanche tanto bene, diciamo che scrive retorica stillata in forma quasi epica, ma scrive un monte di cazzate). La sua Storia della letteratura giapponese è il miglior libro di divulgazione scritto sul Giappone da tempi immemori e su cui schiere di nippologi si sono formate. Stette a Venezia per un anno come visiting professor e ci insegnò BENE. Fu l'unico insegnante che mi insegnò la Poesia. Per dire. E non li trovi in giro insegnanti così. Difficilissimo. Mi disse che l'Italia (che lui e Midori la sua compagna avevano percorso in lungo e in largo) era una nazione antichissima, piena di Storia, colma di sedimenti umani, che non c'era luogo meno selvaggio e naturale del Bel Paese e che sì era davvero un bel paese e che noi italiani così refrattari al patriottismo in verità eravamo nazionalisti in modo sconcertante SOLO sul cibo. Una caratteristica che lui aveva trovato travolgente e unica. Mi fece l'originale confidenza che riteneva gli italiani degli animali politici in nuce. Nel senso che avevano scritto nel loro DNA il senso del compromesso e dellla mediazione. Gli dissi che difatti avevamo un governo stabilissimo sebbene ballerino. E discutemmo di quanto Italia e Giappone per certi versi si somigliassero: il senso del clan, della famiglia, del cibo, del destino precario, del fatalismo innato, del terremoto, della sublime ironia e della tragedia imminente.
L'ultima volta che ci vedemmo fu sempre a Venezia negli anni '90. Era invecchiato assai, ma possedeva sempre quella limpidezza e precisione intellettuale, sua caratteristica peculiare, tanto che finimmo per parlare di politica. Ci raccontammo e ci dicemmo degli ultimi film e libri letti, di quello che sarebbe accaduto dopo la caduta del muro di Berlino. Parlammo della fine del comunismo. Ma ci dicemmo che le utopie buone non muoiono mai. Si evolvono in altro. Poi ieri in questo sito qui ho scoperto casualmente che il mio Sensei è morto.
Piango e rimpiango la sua profonda cultura d'altri tempi e l'intelligenza proiettata verso il futuro, la sua coscienza diversa e la sua sensibilissima capacità umana d'amare e farsi amare, perché solo ora capisco quanto sia difficile avere bravi insegnanti e camminare con la Storia. E di tutto quello che lui ha insegnato a me e a mille altri come me di certo il suo passaggio su questa Terra non è stato vano: che ne abbiamo fatto tesoro e impariamo giorno dopo giorno quanto avesse profondamente ragione.
Grazie Sensei, che tu possa mangiare mille gianduiotti di là alle altre tue mille vite.

p.s. Ringrazio sentitamente Giulio che m'ha fatto l'editing del post stracolmo di refusi

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aprile 15, 2009

PuzzoJoshua sul terrazzo verde


PuzzoJoshua diventa ogni giorno più socievole e sorridente, del resto s'addormenta con il verso dei geki e si sveglia al suono della foresta che all'alba si stiracchia e riprende a lavorare. Si sa: quando si sveglia lui dobbiamo svegliarci noi che se non ci svegliamo strilla arrabbiato, che lui non ha nessuna pazienza d'aspettarci a stomaco vuoto. Ad Auroville la piccola famiglia vive in una casetta al secondo piano in mezzo agli alberi verdissimi che circondano un ampio terrazzo dal pavimento verde.  Al piano terra ci vive la famiglia indiana proprietaria della casetta con due bambini molto simpatici: Ajith e Jagan. PuzzoJoshua adora quest'ultimo ed è amorevolmente ricambiato, è noto che l'amicizia non conosce età. PuzzoJoshua pare che passi ore ad aspettarlo e appena sente dei rumori provenienti da sotto, si precipita a salutare sporgendosi dalla ringhiera di legno sui piedini grassocci e inizia a ciarlare in una lingua antica perché PuzzoJoshua parla la madre di tutte le lingue, e tutti gli rispondono nella medesima lingua che poi è l'esperanto infantile, non ci vogliono inutili dizionari e fallaci traduzioni. E' una linguaggio universale e gli umani quando sono corti la usano, poi crescono e se la scordano. PuzzoJoshua ha un udito finissima e appena sente la voce di Jagan il suo amichetto preferito, si precipita alla ringhiera felice e lo chiama cosicché i due fratelli salgono, lo prendono e se lo portano via. Oppure passano ore a chiacchierare con lui sopra e loro sotto facendo versi nella loro lingua comune e PuzzoJoshua ride tutto contento e loro pure. Ridono e ridono, innocenti come sanno essere solo le persone corte che si perdono a ripetersi per ore e a farsi facce e boccacce divertendosi un mondo. PuzzoJosua si mette la testa tra i paletti di legno e si tira su battendo eccitato i piedini e partono a parlarsi nella più antiche delle lingue, fatta di tantissime vocali e pochissime consonanti, raccontandosi mille storie.  In mezzo alla giungla questi suoni appaiono come i versi di una lingua che non conosce il sangue, la malattia e la morte. Ed è forse la lingua degli dei senza tempo sorridenti che dell'innocenza e dell'empatia tra i viventi sono promotori, ben contenti e felici d'assistere all'allegro e gioioso spettacolo, essi stessi compiacenti e ridenti della risata di bimbi. 

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aprile 14, 2009

Zeitgeist 2


Siccome quando si sta in cucina, si sta veramente lontani anni luce rispetto alla sala, capita che ci si affidi ai camerieri e ci si accorga alla lunga che manipolano in modo irrealistico quello che accade nella stessa. 
Credevo che fossero morti. Ecco anche no. Non sono mai morti e sono sempre tra di noi. E fanno danni. Tanti e troppi. Così aspetto che scoppi il Vesuvio. Poi magari ne riparliamo su come e dove ricostruire senza Gomorra.
Faccio che firmo il contratto per stare qui un altro anno. Sul serio. Mica per dire.